Vicenza, Teatro Olimpico:”The turn of the screw” (Il giro di vite)

Vicenza, Teatro Olimpico – Vicenza Opera Festival 2022
THE TURN OF THE SCREW” (Il giro di vite)
Libretto di Myfanwy Piper, basato sull’omonimo romanzo di Henry James.
Musica di Benjamin Britten
Istitutrice MIAH PERSSON
Mrs. Grose LAURA AIKIN
Prologo/ Peter Quint ANDREW STAPLES
Miss Jessel ALLISON COOK
Miles BEN FLETCHER
Flora LUCY BAROW
Budapest Festival Orchestra
Direttore Iván Fischer
Regia Iván Fischer e Marco Gandini
Scenografia Andrea Tocchio
Costumi Anna Biagiotti
Light Design Nils Riefstahl
Effetti Speciali Nils Corte
Produzione della Budapest Festival Orchestra, l’Iván Fischer Opera Company, il Müpa Budapest e il Vicenza Opera Festival.
Vicenza, 21 ottobre 2022
Si ripropone quest’anno il Vicenza Opera Festival, manifestazione che da tempo porta nella città veneta eventi di musica e teatro musicale d’eccellenza, sotto la guida di Iván Fischer. La scelta del titolo operistico, da mettere in scena nel monumentale contesto del palladiano Teatro Olimpico, è quest’anno caduta (per nostra somma gioia) per la prima volta su un titolo del XX secolo, “The turn of the screw” di Benjamin Britten, caposaldo della Literaturoper. Non occorrerà spiegare al nostro lettore quanto sia importante il repertorio britteniano – e quanto sia ancora poco considerato dai nostri teatri, dai quali ogni tanto occhieggia “Peter Grimes” e poco altro. “The turn of the screw” è un titolo di assoluto primo rilievo, sia per l’originalità di opera gothic, sia per il valore drammaturgico di libretto (tratto da Henry James) e partitura, e senza dubbio la concertazione di Iván Fischer sa mettere in luce con coerenza ogni parte del ridotto ensemble orchestrale (una ventina di elementi). Non rimpiangiamo una compagine più estesa, proprio per l’attenta valorizzazione strumentale e per l’assoluta coesione del suono, né rintracciamo alcun ritardo tra cavea e scena, con le voci pienamente supportate (mai coperte) dall’orchestra. Queste voci, peraltro, non offrono praticamente nessuna défaillance, partendo dall’accorata istitutrice di Miah Persson (soprano capace di momenti di sferzante teatralità come di suggestivi abbandoni lirico-sentimentali, supportata da una solida tecnica), passando per il formidabile Miles del giovanissimo Ben Fletcher (voce bianca, ma di sorprendenti corpo e proiezione), per la Mrs Grose di Laura Aikin, contralto granitico in grado di piegare il fraseggio sulle note dell’angoscia e dell’ambiguità, fino alla piena, lugubre e disperata Miss Jessell di Allison Cook, soprano drammatico dal timbro fascinoso e la linea di canto giustamente tesa, probabilmente il personaggio in cui qualità vocale e resa scenica meglio si fondono. Se da Flora (Lucy Barlow) ci si aspetta una vocalità più acerba e meno consapevole del suo parigrado Miles, abbiamo qualche riserva solo sulla performance di Andrew Staples, certamente più a fuoco come Peter Quint che come Prologo, ma comunque a volte dalla vocalità opaca e il fraseggio poco incisivo. In poche parole: un cast di ottimo livello, al servizio di un’opera affascinante. La resa scenica, invece, solleva qualche perplessità: non per una lettura bislacca o troppo personale – Marco Gandini resta sempre uno zeffirelliano doc, e questo ne garantisce per lo meno grande attenzione al dettaglio, ricerca del bello, spiccato senso del ridicolo – quanto per una organizzazione scenica poco convincente. Siamo consci che lo Scamozzi, per chiare ragioni di conservazione, non si possa utilizzare, e ciò porti quindi a scene “altre” dall’originale, ma la nuova scena dovrebbe avere una coesione sua propria, dovrebbe essere un piccolo mondo dentro il grande teatro; in questo caso Andrea Tocchio crea degli ambienti separati appena abbozzati, che ruotano tutti attorno a una struttura cubica che può diventare, all’occorrenza, chiesa, camera da letto, soggiorno o aula di scuola – éscamotage certamente pratico, ma poco adatto allo spazio in questione. Inoltre la creazione di un esterno con erba sintetica e laghetto in alluminio, se può funzionare in un teatro i cui spettatori guardano il palco dal di fronte, non va all’Olimpico, dove per lo più si guarda dall’alto verso il basso; ugualmente la tecnica del fantasma di Pepper (curata da Nils Corte), che consente di creare su superfici semiriflettenti immagini apparentemente tridimensionali, non funziona se non per le prime file, giacché gli altri guarderanno le superfici montate allo scopo unicamente dall’alto, perdendosi l’effetto. Riequilibrano queste mancanze sceniche certo la bella fattura d’epoca del mobilio e gli accurati costumi di Anna Biagiotti, così come l’uso di alcuni piccoli praticabili semovibili, che sottraggono staticità alla scena, ma resta comunque un po’ l’amaro in bocca per non aver visto davvero quello che si sarebbe dovuto vedere. Peccato.