Milano, Gallerie d’Italia: “Dai Medici ai Rothschild.Mecenati, collezionisti, filantropi”

Dal 18 novembre 2022 al 26 marzo 2023
Orari: dal martedì alla domenica 09.30 – 19.30 / giovedì chiusura alle 22.30
Biglietti: Intero 10 € / Ridotto 8€
Il collezionismo è una malattia”. Non si tratta una citazione famosa, ma ciò che disse, a chi vi scrive, ormai più di dieci anni fa, una signora dietro ad una bancarella di cartoline d’epoca, nel mercatino domenicale “specializzato” che una volta aveva luogo in alcune delle vie nei pressi della Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Aveva l’aria, nel dirlo, incerta tra il compatimento e la sconsolazione, poiché, se lei si trovava in quel momento lì, in quel luogo, lo doveva proprio a quel male incurabile da cui anche il marito era affetto. Chissà se ogni coniuge di un collezionista si trovi a pensarla come quella signora? Quel che è certo, comunque, è che la febbre del collezionismo esiste da sempre. Ad esempio, com’è noto, il cardinale Scipione Borghese arrivò ad atti di ogni genere per accaparrarsi le opere a cui era interessato, come far sì che, in segreto, lo zio Papa Paolo V facesse sparire la Pala Baglioni di Raffaello dalla chiesa di San Francesco al Prato di Perugia per poi farsela regalare.
Troppo spesso la storia dell’arte è pensata, almeno dai non addetti ai lavori, come un grande flusso osservabile dall’alto, come si fa con le amene valli o le grandi distese al tramontar del sole. Tuttavia, le vicissitudini romanzesche delle opere d’arte ci suggeriscono tutt’altro. La storia dell’arte è fatta sì di artisti e del loro “fare”, ma è costituita anche da consumatori, che esigono il massimo per poter soddisfare i loro bisogni. Questo linguaggio economico, che forse avrebbe fatto rabbrividire Benedetto Croce, non è stato utilizzato per caso. Molte pagine di storia dell’arte non sarebbero state scritte senza il denaro, destinato a commissionare e collezionare opere coeve e di epoche passate. Denaro quindi utilizzato, oltre che per il diletto, per catturare consenso, potere, status sociale.
In tale contesto, tra tutti i collezionisti che ci sono stati nella storia, Gallerie d’Italia propone, per la sede in piazza della Scala a Milano, una mostra che si focalizza sulle collezioni di alcuni banchieri, spesso mecenati. L’originalità che dichiarano i curatori, nella conferenza di presentazione, consta in un rapporto apparentemente controverso tra arte e denaro, ma che ha generato una trasformazione, quella della moneta in arte. È quindi una sorta di risarcimento, se leggiamo la parola arte con l’aura di semi-sacralità che ha oggi, ma che ci appare invece molto più normale dopo quanto è stato argomentato. È una mostra che scomoda anche dei capolavori, come la Madonna della Scala di Michelangelo, l’Ercole e Anteo di Pollaiolo, il San Girolamo di Caravaggio (quello di Montserrat), varie opere di Hayez, e l’elenco potrebbe continuare. Nonostante l’eccezionalità che si è voluta conferire grazie alla qualità delle opere, ciò che risulta interessante è il forte stampo collezionistico che si è voluto imprimere. Il taglio ci è apparso molto divulgativo e meno scientifico: non è stato qui possibile ricostruire (per intero o quasi) collezioni andate disperse, ma si è invece voluto sottolineare come il ruolo della committenza e del mecenatismo sia sempre stato fondamentare per l’arte, mutando anche i propri caratteri di epoca in epoca. E il legame di Gallerie d’Italia con il mecenatismo di Intesa Sanpaolo non poteva che far concentrale l’attenzione sui grandi banchieri della storia, che riuscirono, con le loro finanze, a far produrre grande arte e a trasmetterla al futuro con le loro collezioni, pur anche nelle loro dispersioni. Infatti, la ricostruzione di una collezione non è solo un esercizio erudito, ma è lo sforzo di rivivere e portare nuovamente in luce una parte della storia del gusto: come l’arte era concepita e usufruita da chi l’aveva personalmente richiesta.
È una mostra gradevole, come molte di quelle proposte da Galleria d’Italia. Il suo limite è però quello di non aver avuto lo spazio per poter allargare l’indagine a più collezionisti, oltre che non avere una maggior ampiezza nella ricostruzione delle collezioni. Mancano all’appello nomi importanti come quello di Agostini Chigi, e perciò le collezioni dei Medici, di Vincenzo Giustiniani e di Jabach Everhard, seppur utili ad abbracciare un paio di secoli in più nel percorso espositivo, ci appaiono soffrire un po’ di solitudine nella maggior varietà e ricchezza di collezionisti banchieri dell’arco temporale che va dal Settecento al primo Novecento. Tra le cose non toccate, ci spiace soprattutto anche per l’assenza della collezione Roomer, poi confluita in parte in quella Vandeneynden, appartenente al banchiere fiammingo Gaspar Roomer: si tratta forse della più importante nella Napoli del Seicento per quantità e qualità delle opere, e che manifesta dei continui contatti tra Napoli (che insieme a tutto il Sud sconta una questione meridionale anche nella storia dell’arte) e le terre fiamminghe. Ad ogni modo, anche per la qualità di molte opere esposte e per la cura espositiva nelle luci e negli spazi, non possiamo non concludere che sia una mostra da visitare. Soprattutto se si è, anche se in piccolo, dei collezionisti. Un modo per provare a sognare, ma anche per provare un po’ di invidia per chi ha avuto, ed ha, più disponibilità finanziaria di noi per soddisfare i propri bisogni artistici.