Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2022/23
“LA CUPA”
Fabbula di un omo che divinne un albero.
Drammaturgia, Regia, Versi, Canti Mimmo Borrelli
Interpreti:Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Roberta Misticone.
Scene Luigi Ferrigno
Costumi Enzo Pirozzi
Disegno luci Cesare Accetta
Musiche, Ambientazioni sonore Antonio Della Ragione
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Napoli, 3 novembre 2022
Al Bellini, arriva La Cupa: trova riparo, in una cava, una «tribù famigliare» allargata e sottoproletaria – che si macchia, in seno alla tribù medesima, di reati infami: pedofilia, stupri, ammazzamenti. Il padre, metaforicamente Padre d’ogni uomo, deve amaramente ammettere la sua «inutilità» – e, con funerea rassegnazione, liquida sé stesso nella metaforica forma d’un albero, in uno stato figurato di «vegetale». È un’immagine eduardiana: De Filippo, in «Gli esami non finiscono mai», così smantella l’istituzione della famiglia. E, così, l’annienta anche Mimmo Borrelli: drammaturgo-regista-attore-poeta, tradizionalista rivoluzionario. La sua Cupa è la ricostruzione «mitizzata» d’un mondo popolare, con un suo enfatizzato sistema di contraddizioni: un passato, esteticamente morto o superato, composto da canti folclorici carichi d’uno strazio profondo e vago: uno strazio supremo, così preciso da apparire tormentoso e così tanto preciso, a volte, da apparire sfocato, accecante. Un corpo teatrale che si sforma in un lume accecante, per dirla con Daniele Gorret che, così stupendamente, ha saputo definire l’illuministica Philosophie del Marchese de Sade. E Sade, con questo corpo teatrale, tutto apparentemente «ateistico» – e potentemente razionalistico, nella sua veemente primitività –, c’entra tanto. Ma, tra un po’, c’arriveremo. Quei canti, ingenuamente, tendono a manifestare una natura tutta «liturgica» o «chiesastica» – nel vero senso dei termini: canti sottratti, stilisticamente, al reparto popolare della produzione poetica religiosa napoletana. Tutto ciò, però, viene svuotato del suo senso originario, ed assume un «altro» senso narrativo, un senso potentemente pagano. Un teatro che non dev’essere osservato moralisticamente o «razzisticamente»: dev’essere accettato, dunque, così com’è. Perché, questo teatro, ci appare come una zona potentemente astratta ed astorica, benché veristica o neo-realistica. Un’illusione razionalistica o illuministica, proveniente da Sade, tiene insieme tutto ciò. Dove risiede l’elemento illusoriamente razionalistico? Nell’ossessiva e sadiana, o sadica, reiterazione del «turpiloquio»: una drammaturgia che procede per bestemmie, immagini evocativamente blasfeme o veementi, sessualmente raccapriccianti. Quest’ossessiva reiterazione consiste, dunque, in una nuda, infinita e fredda sequela d’informazioni sessuali o immagini crudamente esposte in forma di poesia. Se la prima, o la seconda, immagine ci appare, all’inizio, come fortemente scandalizzante – la terza o la quarta, invece, cominciano ad apparirci come spaventosamente «familiari». Ed ecco, dunque, che l’ammasso d’immagini blasfeme tende, dopo un po’, a razionalizzare o normalizzare sé stesso. E noi, dopo un po’, l’osserviamo con estrema apatia. «A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo», Dostoevskij aveva ragione. Dunque, se da un lato, il dramma appare, formalmente, come «astratto» ed estraneo alla Storia – dall’altro lato, però, strutturalmente, mostra d’essere potentemente e comicamente veristico. O, meglio, potentemente veristiche o neo-realistiche sono le sue connotazioni linguistiche, corposamente e stilisticamente «comiche», erotiche e «tragiche»; un sistema verbale, dunque, percorso e definito da una costante presenza dell’eterno e dualistico tema Eros-Thanatos: una estrema e realistica vitalità, innestata in una tetra e funerea cornice narrativa.
Una cornice entro cui, dunque, gli attori sembrano muoversi come presi da nevrosi coatta: uno escamotage che consente al drammaturgo-regista d’esacerbare il carattere «mitico» o magico del dramma – formato da una espressionistica iterazione di gesti e movimenti geometrici, «religiosamente» eseguiti con nervosa e furente veemenza. Coreografia che va a comporre un sistema di segni linguistici: un discorso scenico, che s’affianca a quello verbale – che gli attori pronunciano con espressionistiche e nette variazioni d’intonazione; ciò, dunque, non accade gradatamente: i mutamenti di tono sono così «nevrastenici» ed estremi che la struttura linguistica si sforma in pura materia sonora, in frasi sonore potentemente stilizzate e recanti in sé caratteri d’una spaventosa e significante nevrosi collettiva – che attraversa e determina, cioè, ogni personaggio: è un uso isterizzato, o esuberante – nel senso vago del termine –, d’un linguaggio che, almeno stilisticamente, ci appare come duramente «neo-realista» – e che, però, non può esserlo concretamente, e fino in fondo, perché costretto nelle convenzioni e nella meccanicità delle forme metriche della poesia; una composizione in versi – lo ripetiamo – fatta d’informazioni e dati sessuali raccapriccianti, bestemmie e litanie: una finta «lingua parlata», esposta con estrema freddezza e con «tono» spaventosamente pragmatico: e ciò consente alle lacerazioni emotive dei personaggi d’emergere «naturalisticamente», seppur così schematicamente stilizzate. E tutto ciò accade sopra le evocative ambientazioni sonore composte ed eseguite da Antonio Della Ragione: suoni provenienti dai canti folclorici del popolo napoletano – riprodotti da strumenti a percussione, come, ad esempio, il tamburo basco. Ottimi, dunque, tutti gli attori – avvolti, peraltro, in grigi e severi costumi, ideati da Enzo Pirozzi: Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Roberta Misticone. La stilizzazione dei sentimenti fa eco allo schema sintetico delle scene, quelle di Luigi Ferrigno: una lunga e stretta piattaforma, che parte dal palcoscenico e che attraversa tutta la platea – privata, per l’occasione, di poltrone –, reca in sé le vaghe sembianze d’un binario morto. Luci funeree e sanguigne, disegnate da Cesare Accetta, concorrono, poi, alla formazione d’una atmosfera «mitica», dal carattere tetramente poetico o decadente. Atmosfera che ha travolto un pubblico tutto attento e commosso. Repliche fino al 12 novembre. Foto Flavia Tartaglia