Opéra National de Paris: “La forza del destino”

Parigi, Opéra National de Paris, Opéra Bastille, Stagione 2022/2023
“LA FORZA DEL DESTINO”
Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma  Don Álvaro o la fuerza del sino di Ángel Perez de Saavedra.
Musica Giuseppe Verdi
Il Marchese di Calatrava JAMES CRESWELL
Donna Leonora ANNA NETREBKO
Don Carlo di Vargas LUDOVIC TÉZIER
Don Alvaro RUSSELL THOMAS
Preziosilla ELENA MAXIMOVA
Padre Guardiano FERRUCCIO FURLANETTO
Fra Melitone NICOLA ALAIMO
Curra JULIE PASTURAUD
Un Alcade FLORENT MBIA
Mastro Trabuco CARLO BOSI
Un chirurgo HYUN SIK ZEE
Orchestra e Coro dell’Opéra National de Paris
Direttore Jader Bignamini
Maestro del coro Ching-Lien Wu
Regia Jean-Claude Auvray ripresa da Stephen Taylor
Scene Alain Chambon
Costumi Maria Chiara Donato
Luci Laurent Castaingt
Coreografia Terry John Bates
Coproduzione Gran Teatro del Liceu, Barcellona.
Parigi, 18 dicembre 2022
La force du destin è il secondo titolo della stagione parigina, nella sobria ed ampiamente rodata produzione di Jean-Claude Auvray, ripresa da Stephen Taylor. Ma è la congiunzione astrale e vocale che solo un teatro di altissimo prestigio internazionale come l’Opéra può propiziare ad ammaliare melomani accorsi da ogni dove.Questa Leonora parigina è decisamente superiore alla celebre sorella londinese di qualche anno fa. Anna Netrebko conserva sempre il timbro tondo e opulento d’armonici che la rende subito riconoscibile, che riempie e gonfia le sale di tutto il mondo come dei palloncini, e a cui deve, in definitiva, l’intere sue fama e carriera. Ma del prodigio di natura, che spesso può da solo giustificare la spesa del biglietto e salvare la serata, non ci siamo dovuti accontentare qui. La Diva, in ottima forma, mantiene saldissimo il controllo sui prodigiosi fiati: li lascia scorrere sul filo dei denti, sfumandoli nelle sue celebrate mezzevoci, come un operoso baco da seta (non già un disgustoso ragno, si badi) fino a solleticare il pubblico gaudente, che sorride estasiato col volto proteso in avanti per delibare fino all’ultima goccia quel nettare delizioso, che poi si esaurisce con un italianissimo portamento: così ella suol concludere “l’amplesso”. Poi, sì, c’è anche il personaggio, da qualche parte, c’è, ma è meno indimenticabile del caviale vocale: frasi come Voi mi scacciate? Voi! sono risolte con un’eleganza che lascia però senza brivido.Suo credibilissimo fratello vocale è Ludovic Tézier, altra natura formidabile sorretta da tecnica inappuntabile ed impreziosita da un gusto deliziosamente rétro per i vecchi baritoni muggenti a 78 giri; limitandosi all’emissione, s’intenda, alla costruzione del suono, e tenendosi ben alla larga dalla talvolta indifendibile incoscienza stilistica di cotali liriche reliquie. Senza eccessi sguaiati, per esempio, ma sfolgorante fino all’ultima molecola d’ossigeno il suo trascinante Finalmente! nel più famoso duetto dell’opera. La querelle sulla vera natura del vero baritono verdiano vede da un lato il partito passatista sventolare dal suo diroccato bastione il bastianiniano (e prima ancora “tittaruffiano”) vessillo del baritono dal timbro scuro e inevitabilmente muggente, e dall’altro lato gli spalti dei progressisti iperdocumentati che non hanno dubbî sull’ascendenza dal tenore romantico di timbro brunito e quindi battagliano la loro istanza per un baritono squillante e facile agli acuti. Tézier può facilmente portare la pace tra queste invero sgangherate schiere accontentando gli uni con il suo timbro pieno e sontuoso, minaccioso come la tempesta del cor (perché, si sa, il baritono è uno che si tiene tutto dentro) e gli altri con i suoi acuti gloriosi e squillanti. Ferruccio Furlanetto è sempre un tocco di classe. Da un punto di vista prettamente vocale il Padre Guardiano non è un ruolo per lui. Avendo già un piede sulla scala che porta al registro acuto e una sensibilità particolare per la parola, è quello che si dice un basso francese, essendo meno scuro di quello italiano e di lui un po’ più parlante e un po’ meno cantante. Difatti Furlanetto ha consegnato alla storia forse la più perfetta interpretazione del Filippo II, ma Furlanetto è soprattutto un grande cantante, ovvero un professionista di fine intelligenza e profondissima conoscenza, anzi padronanza, di ogni registro stilistico e di ogni repertorio. Il che gli permette di sostenere ruoli non tagliati per lui, e di farlo con una proprietà sconosciuta a cantanti più giovani e forti: la mia testa e le vostre gambe, come dicono i vecchi del popolo ai loro ragazzi. Ma Furlanetto di gambe ha ancora le sue, e in ottima forma, e non solo quelle: egli è il prodotto di un mondo di ieri, irrimediabilmente perduto, quello in cui si muovevano agenti che sapevano bene come un cantante potesse rendere di più in 45 anni di oculata carriera che non in due di exploits paglierini. All’Opéra non si fanno economie e per il ruolo di Melitone si disturba uno dei più prestigiosi baritoni italiani (che ça va sans dire è propheta all’estero), Nicola Alaimo, che intelligente com’è accetta di buon grado perché lui lo sa che si tratta di un ruolo nient’affatto marginale. Vocalmente è impeccabile, scenicamente pare un po’ abbandonato a se stesso, anche se la cosa non lo mette certo in difficoltà. Poi Carlo Bosi è il Trabuco perfetto, con quel misto di ipocrisia, pezzenteria e ambiguità che il personaggio esige. Ma protagonista è anche il coro, di livello sommo, in perigliosa sfida agli orgoglî meneghini. Va ricordato che il coro dei contadini questuanti il pan per carità, e la subito seguente frase dei giovani soldati rapiti all’incanto e costretti a lasciare le povere madri deserte nel pianto sono (oltre che alta poesia che sola può riscattare il bistrattato Piave dalle ingiuste irrisioni) vette assolute del teatro verdiano: quanta umanità coagulata in così brevi accenti! Onore dunque a Ching-Lien Wu che ha condotto il coro a questi livelli. La Preziosilla di Elena Maximova è più che dignitosa, ma certe asperità della dizione e poi del timbro, cui cerca di rimediare facendo insistito e smascherato ricorso alla cosiddetta voce di petto, le impediscono di diventare un riferimento nel repertorio italiano. E però solidissima e muscolosa la salita agli acuti. Altrettanto solido nell’emissione e avaro di morbidezze (invero non indispensabili) il Calatrava di James Creswell. Il lettore accorto se ne sarà già avveduto: c’è ancora una vistosa mancanza. Prendiamola dall’origine. Su certi ruoli in specie verdiani, e Don Alvaro appartiene di tutto dritto alla categoria, grava da parte di molti la pretesa non ben giustificata che siano sostenuti esclusivamente da una sorta di Heldentenor di forza, insomma, parafrasando elegantemente un’espressione veramente udita da un esponente di questo partito, un tenore tetrorchide. Per intenderci, stiamo parlando di chi sosteneva Carreras non potesse cantare Radames. Al contrario Meli provoca: “io direi che tutti i ruoli tenorili scritti da Verdi possono idealmente essere cantati dallo stesso tenore”. Essere al contempo tenori squillanti e appassionati e poi questa sorta di orco violento e brutale (il tetrorchide di cui sopra) non è possibile. Soprattutto se non hai una natura speciale.Dunque se la voce della Netrebko è come il cioccolato al latte che piace anche ai bambini, Teziér quello appena più fondente e Furlanetto quello extra amaro che solo gli intenditori sanno apprezzare, la Maximova può diventare un buon amaretto e invece Russell Thomas è condannato alla parte della scorza di limone che, non ricoperta di cioccolato, inopinatamente sprizza in bocca i suoi aspri succhi. Introdotta però da un assolo di clarinetto veramente superlativo. Condonata la cattiva abitudine di eseguire la sinfonia prima del secondo atto, la direzione applauditissima di Jader Bignamini è da promuovere: agile, svelta, dinamica, energica. Di gusto molto italiano, ma con trasparenze tedesche che per Verdi risultano molto appropriate.Mai non può esaurire il suo fascino questa sorta di grand opéra, genere francese messo a punto e praticato prevalentemente da compositori italiani, scritto per San Pietroburgo. Si replica fino al 30 dicembre. Foto Charles Duprat