La Danza e le sue parole: “Il Centro”

Col termine “centro” si indica la seconda parte della lezione di tecnica della danza classica, che si svolge per l’appunto al centro della sala, senza l’ausilio della sbarra e generalmente ha la durata di circa un’ora.
Dopo aver concluso gli esercizi alla sbarra, attraverso i quali il danzatore ha avuto l’opportunità di riconfermare e consolidare la grammatica del movimento con l’esecuzione di plié e battements, c’è una ulteriore fase, un momento di transizione tra la sbarra e il centro, che è rappresentato dallo streching.
Lo stretching rappresenta una sorte di ponte tra le due sezioni della lezione e si configura come un momento molto personale, della durata di circa cinque minuti, in cui il danzatore lascia respirare il corpo, soprattutto la colonna vertebrale (particolarmente sollecitata durante l’esecuzione degli esercizi alla sbarra), attraverso una serie di movimenti finalizzati ad “aprire” ulteriormente le articolazioni e la muscolatura, al fine di predisporre il corpo ad affrontare con prontezza e consapevolezza lo spazio della sala.
Nei primi anni di studio sarà l’insegnante a suggerire e indicare all’allievo i movimenti più utili da eseguire, successivamente sarà lo stesso danzatore ad ascoltare i bisogni del proprio corpo e a scegliere i movimenti più consoni. Una buona consapevolezza e propriocezione, maturata con la costante dedizione allo studio, consegna infatti la capacità di “sentirsi”, ovvero di rispondere adeguatamente alle richieste del corpo che, attraverso una serie di segnali, può parlare e comunicare necessità e desideri a chi sa essere in ascolto.
Lo studio della danza classica necessita di grande pazienza e umiltà ed è graduale: ogni movimento si incorpora progressivamente, aumentando la difficoltà, la velocità, l’articolazione delle sequenze di giorno in giorno, mese in mese, anno in anno, dalla sbarra al centro, dalla sala al palcoscenico.
La stessa gradualità che caratterizza l’apprendimento della disciplina riflette, a ben guardare, la costruzione della lezione: dai primi esercizi alla sbarra, in cui si connettono mente e corpo, all’ultima sezione, l’allegro, in cui per Agrippina Vaganova c’è «tutta la scienza della danza, tutta la sua difficoltà e il presupposto della sua perfezione futura» (Vaganova, 2007).
Gli esercizi al centro dalla sala, che di certo sono l’uno propedeutico all’altro, possono variare tuttavia a discrezione dell’insegnante, a seconda del livello di studio e della finalità della lezione (se per studenti o professionisti). La stessa Vaganova non ne dà uno schema rigido per la sua costruzione, in quanto ritiene che nella sua definizione giochi «un ruolo decisivo l’esperienza e la sensibilità dell’insegnante». In genere il centro si apre con un esercizio di “piazzamento” come un breve adagio, solitamente della durata di trentadue tempi (anche la durata degli esercizi è indicativa ed è a discrezione dell’insegnante) utile a verificare l’organizzazione del corpo del danzatore al centro senza il supporto della sbarra.
Si tratta di un esercizio “sul posto” che non prevede spostamenti nello spazio, immaginato per testare l’equilibrio del danzatore e composto essenzialmente da port de bras, grandi pose e aplomb.
Segue la ripetizione di una serie di esercizi già effettuati alla sbarra come il battement tendu, il battement jeté, ilrond de jambe, il battement fondu, ilbattement frappé, il petit battemente il grand battement jeté eseguiti, questa volta, senza il supporto della sbarra in pieno equilibrio: en face e nelle direzioni dello spazio croisée, effacée, écarté ed  en tournant.
Nei corsi di studio intermedi e avanzati la quantità di esercizi può essere ridotta unendo alcuni esercizi tra loro: in tal modo le combinazioni diventano più articolate concertando assieme dinamiche e coordinazioni diverse.
Seguono combinazioni di pirouettes e tours, il grande adagio e l’allegro.
Ogni danzatore sa che, in qualche modo, l’eco del lavoro alla sbarra rimane cruciale e sempre tangibile, anche al centro.
Se il rapporto con essa è stato vissuto in maniera corretta lasciandole la funzione di mero supporto e non di puro sostegno allora il corpo del danzatore sarà stato opportunamente educato alla giusta distribuzione del peso del corpo nell’articolazione tra l’arto libero e l’arto portante. Se invece la sbarra è stata utilizzata con forza, come un’ancora a cui aggrapparsi per effettuare gli esercizi, allora tutto il lavoro è da considerare “falso”, in quanto non avrà consegnato la necessaria autonomia, il puro aplomb per affrontare il lavoro al centro e nello spazio.
Dalla sala di danza al palcoscenico, dalla sbarra al centro, il danzatore come territorio di lavoro ha solo ed esclusivamente se stesso. Un campo, uno spazio vuoto, più vasto di quello del pittore o del musicista, perché per creare delle azioni leggibili dal pubblico osservatore ha bisogno di mettere in gioco ogni aspetto di sé e di sé nello spazio.
Se la danza è comunicazione, non è tuttavia sufficiente provare un’emozione, avere un’intenzione molto intensa o una visione perché questa sia letta dallo spettatore: bisogna compiere un salto creativo e forgiare una forma che possa contenere e riflettere i suoi impulsi. Ecco in cosa consiste ciò che il regista teatrale Peter Brook definisce «azione autentica» (Brook,1988) e che probabilmente ha portato il filosofo illuminista Charles Batteux a definire la danza come «una poesia muta e una pittura vivente».(Marchesano, 2022)
Il corpo del danzatore deve poter contenere un’intenzione ma deve anche necessariamente riflettere questa intenzione nello spazio in quanto come sostiene Rudolf Laban ogni corpo può formare un continuum con lo spazio, che inse stesso è movimento.Il corpo del danzatore al centro della sala, dunque, può essere immaginato come un’architettura, plastica e vivente, che attraverso la danza scopre e manifesta infinite possibilità di spazio in quanto può occupare uno spazio, è spazio e può generare spazi. Questa è forse la finalità del centro in una lezione di danza classica: insegnare all’allievo a dialogare e interagire con lo spazio, a pensarlo come un elemento vivente,ad attraversarlo come una sostanza,un volume tridimensionale con il quale entrare in contatto attraverso il movimento, gli épaulements, il peso dello sguardo.
Esiste, tuttavia, ancora oggi, un implicito e accettato luogo comune secondo cui il danzatore classico sia condannato a muoversi in una sorta di spazio bidimensionale solo ed esclusivamente per il fronte pubblico. Si tratta chiaramente di un punto di vista assai miope che non tiene conto del fatto che un qualsiasi gesto può essere guardato non solo dal pubblico in platea e nei palchi ma anche e soprattutto dagli altri componenti dell’azione che ora posizionati di lato, ora dietro, ora davanti a chi sta danzando devono poter recepire il movimento per essere parte attiva della scena.Quando nel pas de deux della seconda scena del primo atto Tatiana, la protagonista del balletto Onegin (balletto coreografato da John Cranko su musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij, tratto dal romanzo di Aleksandr Puškin Eugenio Onegin) guarda attraverso lo specchio per danzare con un Onegin idealizzato, sta creando contemporaneamente più piani spaziali: non sta danzando semplicemente in uno spazio, ma sta creando spazi che possono essere osservati da più punti di vista e che  in questo caso evocano altre realtà. Al di là dello specchio, dove sogna l’immagine di un Onegin finalmente innamorato di lei, c’è lo spazio del suo mondo ideale in cui finalmente può celebrare il suo amore ricambiato. Al di qua dello specchio, dove invece Tatiana si ritrova a vivere e resistere, sola, nel mondo reale, senza il conforto dell’amore, c’è un altro spazio, quello del mondo concreto in cui è costretta ad accettare il cinico rifiuto dell’uomo. Rapportandosi con i confini e i volumi dello spazio scenico, Tatiana crea nuovi confini, nuove linee, nuovi volumi in una sorta di influenza reciproca dallo spazio al corpo, dal corpo allo spazio.
Le gambe, le braccia, la schiena, lo sguardo della danzatrice attraversano lo spazio fendendolo, creando di volta in volta piani, volumi, livelli, pieni, vuoti, zone di luce e d’amore, di ombra e di dolore.
Lo studio della danza classica, dalla sbarra al centro e dalla sala al palcoscenico, può dunque essere pensato come quel lungo percorso dove solo la devozione, la cura, la pazienza possono accompagnare il danzatore ad incorporare un linguaggio capace di rendere il corpo strumento dell’idea e a servizio dell’intenzione.
La pratica del centro, all’interno di una lezione di tecnica classica, andrebbe forse sempre vissuta, dagli studenti e dai maestri, con la consapevolezza che il gesto quando incorpora senso, serve per generare architetture di luci, ombre e colori in uno spazio che ha sfondato le cornici del quadro della scatola scenica, in cui di solito si relega l’azione teatrale, per diventare materia, sostanza e racconto. (Immagini di pubblico dominio per la copertimna /ph. Brescia-Amisano per il Teatro alla scala, Onegin)