“Napoli” e “Les Sylphides”: ballo romantico e ‘ritorno’ da Bournonville a Fokine

In occasione di uno spettacolo di balletto del Teatro di San Carlo di Napoli, si coglie l’occasione di pubblicare questo testo anche su questa rubrica. Si tratta del Programma di sala ufficiale realizzato da chi scrive, il quale non solo offre una panoramica storica sui due titoli in scena, ma chiarisce l’equivoco che spesso si genera a proposito del balletto romantico con Les Sylphides di Fokine.

Napoli e Les Sylphides costituiscono pressappoco l’alpha e l’omega che delimitano un segmento temporale in cui il balletto romantico si afferma e si dissolve. Si tratta di due titoli che spesso sono a torto identificati con la stessa idea estetica o con la stessa poetica, ma che al contrario rappresentano ciascuno il proprio tempo in maniera differente, quali prodotti di due momenti storici in cui l’evoluzione dello spettacolo coreico tocca idealità e novità che ben si prestano a renderli pietre miliari della coreografia tra XIX e XX secolo.
Nel 1842 Napoli segna l’esito più felice della permanenza in Italia da parte del coreografo danese August Bournonville (1805-1879), una delle figure più importanti della storia del balletto non solo per la sua azione sul territorio e fuori, ma soprattutto per gli scritti che ha lasciato in eredità ai posteri (cosa rara per maestri e coreografi, anche se il Nostro costruisce attraverso i propri scritti una immagine di sé che i documenti d’archivio talvolta smentiscono) e per il fatto che le sue coreografie non sono mai uscite dal repertorio del Balletto Reale Danese, per cui possono a buon diritto essere considerate vettori senza soluzione di continuità dello stile ottocentesco della danza europea. Sarebbe tuttavia ingiusto relegare la cosiddetta ‘Scuola danese’ – se di ‘scuole’ è ancora lecito parlare viste le più recenti letture della storia della danza in prospettiva incrociata e data la naturale contaminazione di stili e tecniche dovuta alle costanti migrazioni di danzatori, maestri e allievi –  alla sola Danimarca, sia pure terreno di incroci della danza francese e italiana già dal Settecento.
Negli anni di Bournonville è possibile identificare, per l’Europa, un asse Parigi-Napoli-Vienna-Milano-Londra- Stoccolma attraverso un fiorire di scambi che contribuirono alla dissoluzione della gerarchia dei generi (sérieux, demi-charactère- grotesque): i corpi di Auguste e Armand Vestris, insieme a Louis Duport, furono in quegli anni i protagonisti di una transizione importante nell’estetica e nella dinamica della tecnica accademica.
Con Auguste Vestris, infatti, Bournonville si perfezionò a Parigi, tra il 1824 e il 1829, ivi arrivato ‘debole’ per mancanza di insegnamenti dinamici dopo lo studio alla Scuola Reale danese con Vincenzo Galeotti e successivamente entrò con successo a far parte del corpo di ballo dell’Opéra. Succeduto al padre Antoine, danzatore e coreografo francese, alla direzione della Scuola di Ballo del Teatro Reale Danese dopo la parentesi negativa di Pierre Larcher, Auguste non solo risollevò la scuola ma vi impresse il proprio ‘marchio’ nel corso della sua direzione dal 1830 al 1877 (con alcune interruzioni). Il suo apporto didattico vedeva la confluenza della linea tecnica francese e della mimica italiana, ma vista la sua permanenza a Napoli negli anni d’oro del ballo romantico con ogni probabilità assorbì più di quanto non si creda dalla forte tecnica locale (soprattutto dalla scuola maschile), dove gli allievi di Salvatore Taglioni brillavano per virtuosismi in un contesto in cui la danza era da sempre molto acrobatica e, soprattutto, ‘saltata’, come oggi ben si vede per il repertorio bournonvilliano. Ma non solo: Napoli, con i numerosissimi balli che ogni anno Salvatore Taglioni doveva allestire (e di cui lo stesso Bournonville avrebbe biasimato il sistema ‘usa e getta’ imposto al coreografo per compiacere il pubblico), era terreno di sperimentazione continua anche per la convivenza con un teatro musicale di prim’ordine. Basti dire, per riferirci al balletto in questione, che la scena della grotta azzurra era stata mutuata da una analoga presente nel Duca di Ravenna di Salvatore Taglioni (San Carlo, 30 maggio 1830, musica di Nicola Gabrielli): l’effetto che doveva sortire al San Carlo – all’epoca dotato ancora del palcoscenico più grande d’Europa prima della riduzione causata dall’avanzamento di Palazzo reale con i lavori del 1840 – non era potuto passare inosservato, tanto che Auguste lo ripropose nel suo allestimento danese del 1842.
Napoli, ossia il pescatore e la sua sposa, non è dunque solo un ‘omaggio’ alle scene di vita quotidiana che durante il suo soggiorno a Napoli il coreografo aveva potuto osservare dal borgo marinaro di Santa Lucia e che avrebbe riportato nella loro giovialità, in quella fusione di sacro e profano che ha da sempre contraddistinto la città insieme alle tarantelle e alla teatralità dei personaggi di strada: è un punto di confluenza di aspetti tecnici, visti i riferimenti anche alla tarantella coeva e alle brillanti combinazioni di salti, e aspetti scenografici, se si pensa al Vesuvio sul fondale, a Copenaghen naturalmente dipinto e che invece sul palcoscenico del San Carlo appariva spesso dal vivo grazie all’apertura posteriore e alla possibilità di offrire un paesaggio reale in tutta la sua bellezza. Non vanno inoltre trascurati gli echi musicali di canzoni popolari oggi considerate classiche, come Io te voglio bene assaje e tu nun pienz’a me, che si inserisce come un guizzo melodico puro nelle accozzaglie musicali disposte lungo i tre atti da Holger Simon Paulli, Edvard Helsted, Niels Wilhelm Gade e Christian Lumbye e che conferma quanto a Napoli la musica colta fosse innestata naturalmente con quella di improvvisazione popolare, tanto da inserirsi come ‘citazione’ nella partitura di un balletto danese. Come ricorda Raffaele Di Mauro, grazie alle fonti letterarie è possibile affermare «quasi con certezza che la vita musicale popolare cittadina della Napoli del primo Ottocento girasse essenzialmente intorno a un luogo della città ben preciso, ovvero il molo, dove si raggruppavano diverse figure legate allo spettacolo e all’intrattenimento (ciarlatani, pulcinella, ecc.), e, in particolare, alcune figure di musici ambulanti e cantori girovaghi» (Di Mauro 2017). Negli stessi anni dei viaggi di Bournonville, la melodia compariva nella Sonnambula di Vincenzo Bellini (Atto I, Vi ravviso o luoghi ameni) ed è al molo di Santa Lucia che il coreografo ascoltava il popolo cantare e poteva osservare scene pittoresche.
Primo interprete in Danimarca nel ruolo del protagonista Gennaro fu lo stesso Auguste, al fianco di Caroline Fjeldsted nei panni di Teresina. Assai semplice la trama, che si riflette sulla scena come uno schizzo di pittura dal soggetto popolare: il pescatore Gennaro è innamorato di Teresina e si muove con lei in una danza di piazza nel primo atto, sullo sfondo di una città brulicante di scugnizzi, venditori di maccheroni, un frate di manzoniana memoria (come ha voluto vedere Rita Maria Fabris in una sorta di ‘eco’, in concomitanza con gli anni della edizione quarantana dei Promessi Sposi), di una madre apprensiva e di personaggi intrisi di colore locale. Partiti per una gita in barca, i due giovani sono colti da una tempesta e Teresina affonda in mare, mentre Gennaro si salva; l’atto ‘bianco’ diventa qui ‘azzurro’ e si trasferisce presso la Grotta Azzurra dell’isola di Capri, dove il dio Golfo, innamorato della ragazza, la colloca tra le Naiadi del suo corteo. Un amuleto della Madonna e il suo amato sceso negli abissi la salvano, così i due possono fuggire. Il terzo atto si dipana fra danze d’insieme, trii e assoli, per concludersi nella lunga tarantella finale (quella con la fusciacca, come le note litografie di Gaetano Dura conservate alla Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli illustrano) e il galop conclusivo.
Quello che si vede con Bournonville è un romanticismo positivo, solare, che nulla ha a che vedere con le tragedie o l’aspetto più noir della fenomenologia del soprannaturale che poteva in quegli stessi anni affermarsi con un balletto come Giselle in Francia; è l’altra faccia del Romanticismo, quella del ‘caratteristico’ e delle tradizioni popolari. Il cosiddetto ‘ stile Bournonville’, fatto di piccoli salti di agilità che si muovono soprattutto in altezza (caratteristica probabilmente ereditata dalla necessità, negli angusti teatri danesi) e di batterie veloci (considerate in vero il punto di forza della ‘scuola italiana’) che contrastano con la compostezza apparentemente immobile della parte superiore del corpo, con le braccia quasi sempre in posizione di preparazione. Il movimento della parte alta del corpo è affidato all’allungamento della linea della testa e l’attenzione riservata allo «sguardo eloquente» del ballerino è per lui la vera «espressione dell’anima», come si può evincere da «una posa tipica della ballerina bournonvilliana in effacé derrière con gli occhi volti verso il piede della gamba libera indietro.[…] Avere uno sguardo tranquillo, sereno e partecipe dava l’opportunità, secondo Bournonville, di elevare lo spirito dello spettatore e di coinvolgerlo cinesteticamente. Una esecuzione che esaltava solo la meccanica e la ginnica, che si accompagnava spesso a contorcimenti del corpo e a smorfie del viso, disperdeva le energie del ballerino in sforzi inutili e concentrava l’occhio dello spettatore esclusivamente sulle possibilità articolari della danzatrice» (Falcone 2011).
Napoli è dunque un prodotto del pieno romanticismo europeo, quello che si veste di colore e che popola l’atto ‘bianco’ di divinità colorate anch’esse, che si nutre della curiosità intellettuale di un coreografo che aveva pure sentito il bisogno di affrontare temi storici e saghe nordiche, e di riprodurre nella sua Sylfiden del 1836 quella Sylphide di Filippo Taglioni (che a sua volta tanto doveva al retroterra napoletano del San Carlo) applaudita due anni prima a Parigi e rispetto alla quale essa costituisce ad oggi una fonte ben più affidabile proprio perché mai uscita dal repertorio.
Sempre sulla memoria delle esperienze italiane, Bournonville creò nel 1858 La festa dei fiori di Genzano (o Infiorata), dedicato alla festa tradizionale del comune in provincia di Roma, di cui è sopravvissuto solo il Pas de Deux. Come per il precedente balletto, anche qui si ritrovano danze italiane stilizzate (tarantella, salterello), per dare spazio al folklore e spesso lo si trova eseguito nei gala o in cucitura rapsodica proprio all’interno di Napoli, quando questo non costituisce uno spettacolo a serata intera.
Ad affiancare Bournonville in una giustapposizione di prodotti ciascuno figlio della propria epoca, Les Sylphides di Mikhail Fokine (Michail Michailovič Fokin, 1880-1942) è invece legato al ballo romantico solo da un’idea, dal momento che ne rappresenta la sua definitiva dissoluzione. E questo non solo per l’epoca in cui il balletto andò in scena, ossia oltre sessant’anni dopo, ma in quanto creato in seno a una riforma concepita dallo stesso Fokine in contrapposizione alla portata epica dei balletti di Marius Petipa (1818-1910), specchio del proprio tempo ma non più adatti allo spettatore moderno. Si tratta infatti della ripresa del balletto Chopiniana, creato dallo stesso coreografo nel 1907 e poi rielaborato nel 1908 col nuovo nome Les Sylphides in omaggio alle atmosfere del primo Romanticismo che egli intendeva evocare. Appartenente al nuovo filone di quadri brevi e giustapposti in contrapposizione ai grandi balletti a serata intera non più sostenibili, esso risulta composto di sole variazioni per corpo di ballo femminile e per un solo interprete maschile nel ruolo del poeta sognatore, su brani musicali di Fryderyk Chopin orchestrati da Alexandr Glazunov (successivamente anche da altri compositori tra cui Igor Stavinskij). Il sottotitolo Rěverie romantique (Sogno romantico) rievocava, pur appartenendo a un periodo storico molto diverso, le atmosfere e lo spirito del primo Ottocento, secondo Fokine dotato di espressività autentica. Privo di una trama narrativa, inaugurò la forma del balletto concertante, basato sulla sola interpretazione della musica; questa formula ebbe successivamente grande fortuna e tra i grandi coreografi che la sperimentarono con esiti altissimi ricordiamo su tutti George Balanchine. Benché composto da variazioni, non si trattava tuttavia di un divertissement, forma aborrita da Fokine: non c’erano infatti quei soli strappa-applausi che interrompevano di continuo l’unità drammaturgica della messa in scena. Qui l’atmosfera di sogno andava mantenuta senza soluzione di continuità in un variare continuo di formule finali per ciascun numero coreutico, che doveva confluire in quello successivo senza distogliere l’attenzione del pubblico. Per richiamare in maniera evidente le caratteristiche visive del primo Romanticismo Fokine ricorse ai lunghi tutù dell’atto bianco della Sylphide di Taglioni del 1832 (con cui spesso erroneamente il nostro balletto è confuso) e questo fu anche il motivo per cui l’impresario Diaghilev volle modificare il titolo dall’iniziale Chopiniana. Di qui la scelta di un corpo di ballo esclusivamente femminile, ma l’unico ruolo maschile non fu relegato a fare da porteur, quanto piuttosto pensato in maniera funzionale alla connotazione lirica auspicata dal coreografo, che non mancava mai di ripetere a Nižinskij di non danzare per il pubblico mettendo in evidenza se stesso ciò che lo circondava, ossia le «eteree silfidi». (Fokine, trad. 2021)
Fokine fu, difatti, il grande rifondatore del balletto novecentesco e Les Sylphides ne rappresentano a tutt’oggi un cammeo esemplare: idealmente collegate a un romanticismo da lui letto come momento della danza espressiva più pura e non virtuosistica, una rimembranza simbolica in un momento in cui il volgere del secolo vedeva trionfare sulle scene non solo le poderose strutture di Petipa nella Russia zarista, ma ancor più, in Italia, il grande ballo storico-allegorico come Excelsior di Marenco-Manzotti che sottometteva la qualità artistica alla spettacolarità. La perdita dello spessore drammatico da parte di chi andava in scena, a tutto vantaggio non solo dei nuovi traguardi della tecnica ma soprattutto di un esibizionismo fine a se stesso, aveva nel frattempo portato non solo la nascita di nuove espressioni corporee come la danza libera, ma anche una ‘revisione’ della danza accademica. Fokine si fece di fatto promotore di una riforma che poi applicò a tutte le creazioni per i Ballets Russes e, dopo una lunga sperimentazione sul campo, nel 1914 condensò in cinque punti i nuclei fondanti delle sue idee, chiedendo che fossero pubblicati sul quotidiano The Times di Londra, dove si trovava in tournée, sotto forma di lettera indirizzata al giornale. Questa lettera, pubblicata il 6 luglio del 1914, è considerata il manifesto della sua riforma, la quale prevedeva di non utilizzare passi prestabiliti, di pensare danza e mimica solo in relazione all’azione e mai come meri divertimenti o intrattenimenti, di usare il gesto convenzionale solo se intimamente legato al contesto dell’opera e al suo stile, di ottenere l’espressività dei gruppi e della danza d’insieme senza usare il corpo di ballo con intento decorativo ma drammaturgico, che la danza si alleasse definitivamente alle altre arti senza prevaricazione da parte di nessuna di esse. (Morselli 2019). Allo stesso tempo andavano aboliti tutti i virtuosismi privi di significato, era necessario rendere espressivo il corpo nella sua totalità e restituire dignità alla danza maschile, uscita quasi di scena nella seconda metà del XIX secolo non certo secondo una visione femminista, ma di tutt’altro tipo.
I principali interpreti furono Tamara Karsavina, Anna Pavlova, Olga Preobajenska e Vaslav Nižinskij: un cast «glorioso». La Pavlova, nella Mazurka, pur non dotata di grande elevazione, col suo librarsi trasmetteva alla perfezione l’idea di «volo nello spazio» e non di salto in sé, cosa che – come sottolineò successivamente lo stesso Fokine nelle sue memorie – non si poteva [e non si può] insegnare; le doti di Karsavina, che non aveva né la snellezza né la leggerezza della Pavolva, si prestavano magnificamente al romanticismo che intendeva evocare; Preobajenska era dotata di straordinario equilibrio e riusciva a bloccarsi a lungo su una punta sola, riuscendo a rendere nel suo Preludio tutta l’etereità di una danza senza salti (il suo difetto era però la tendenza a improvvisare, cosa detestata dal coreografo e che purtroppo era ancora prassi, a dispetto dell’autorialità del prodotto scenico). Nižinskij apprendeva subito e in via definitiva con grande naturalezza tutte le indicazioni, tutta la genuinità di un gesto colto in un momento preciso dell’atto del mostrare e lo riportava in scena con la stessa qualità; in questo balletto diede grande prova di sé.
Per concludere con Fokine, «è vero che la danza riesce a esprimere chiaramente quello che è inesprimibile a parole, ma per comprendere e afferrare il significato nascosto della danza è necessaria una particolare qualità spirituale». E questo spirito ‘romantico’ nel senso più complesso del termine è quello necessario a cogliere il significato di uno stile solo apparentemente anacronistico, in un balletto dei primi anni del Novecento.
Se dunque Napoli e Les Sylphides sono due balletti cronologicamente distanti e altrettanto divergenti in relazione alla tecnica con cui sono stati concepiti, possono idealmente legarsi attraverso quel filo rosso di un romanticismo che, nel primo, è portato in scena nella sua verità storica di prodotto del suo tempo, ma che nel secondo, invece, emerge attraverso il miraggio di una rievocazione nostalgica che, ancora oggi, fa sognare i cuori gentili. (immagini di pubblico dominio: Anna Pavlova, Tamara Karsavina, Vaslav Nižinskij)

Riferimenti bibliografici:
Roberta Albano, Louis Antoine Duport at the Teatro San Carlo in Naples, 1814 -1820, in Times for Changes: Transnational Migrations and Cultural Crossings in Nineteenth-Century Dance, a cura di Irene Brandenburg, Francesca Falcone, Claudia Jeschke, Bruno Ligore, Bologna, Massimiliano Piretti, 2022.

  • Erik Aschengreen, Bournonville, Biedermeier and French Romanticism, in Theatre Research Studies II, a cura di Svend Kragh-Jacobsen, Erik Aschengreen, University, The Institute for Theatre Research, Copenaghen, 1972.
  • Lavinia Cavalletti, Salvatore Taglioni, King of Naploes, in Rethinking the Sylph. New Perspectives on the Romantic Ballet, a cura di Lynn Garafola, Middletown, Wesleyan University Press, 1997.
  • Raffaele Di Mauro, Improvvisazione popolare urbana a Napoli nel primo Ottocento. Dai canti del molo a «Io te voglio bene assaje», in Storia della canzone napoletana 1824-1931, a cura di Pasquale Scialò, Neri Pozzi Editore, Vicenza, 2017.
  • Idem, Passatempi musicali di Guglielmo Cottrau: matrici colte e popolari di un repertorio urbano, in Passatempi musicali. Gugliemo Cottrau e la canzone napoletana di primo ‘800, Guida Editore, Napoli, 2013.
  • Rita Maria Fabris, Il Bildungsroman di August Bournonville. Studi di danza e identità in movimento, in «Mimesis Journal», VIII, 2 (2019), pp. 67-87.
  • Francesca Falcone, L’ispirazione di Bournonville tra Francia e Italia, in http://www.augustevestris.fr/spip.php?article258, 2011.
  • Eadem, Armando Vestris danzatore e coreografo a Napoli: la stagione del 1817, in Danza e ballo a Napoli: un dialogo con l’Europa (1806-1861), a cura di Paologiovanni Maione e Maria Venuso, Napoli, Turchini Edizioni, 2021.
  • Michel Fokine, Memorie di un coreografo, trad. di Viviana Carpifave, LIM, Lucca, 2021.
  • Valeria Morselli, La danza e la sua Storia, Dino AudinoEditore, Roma, 2019, III.
  • Paologiovanni Maione e Maria Venuso (a cura di), Danza e ballo a Napoli: un dialogo con l’Europa (1806-1861), Turchini Edizioni, Napoli, 2021.
  • Flavia Pappacena, Il rinnovamento della danza tra Settecento e Ottocento. Il trattato di danza di Carlo Blasis, LIM, Lucca, 2009.
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  • Patrizia Veroli, Baccanti e Dive dell’aria. Donne danza e società in Italia 1900-1945, Edimond, Città di Castello, 2001.
  • Eadem, I balli composti e/o diretti da Salvatore Taglioni nei Teatri Reali napoletani San Carlo e Fondo (1814-1861): una prospettiva dai libretti, in Danza e ballo a Napoli un dialogo con l’Europa (1806-1861), a cura di Paologiovanni Maione e Maria Venuso, Turchini Edizioni, Napoli, 2021.