Milano, Manifatture Teatrali Milanesi, Teatro Litta: “Medea, una strega”

Milano, Manifatture Teatrali Milanesi – Teatro Litta, Stagione 2022/23
MEDEA, UNA STREGA”
da Euripide
Medea ALICE SPISA
Giasone FILIPPO RENDA
Pedagogo/ Creonte/ Egeo SALVATORE ARONICA
Nutrice/ Glauce SARAH SHORT
Nunzio/ Corifea GAIA CARMAGNANI
Riscrittura e Regia Filippo Renda
Scene e Costumi Eleonora Rossi
Direzione tecnica, luci e suono Fulvio Melli
Produzione Manifatture Teatrali Milanesi con il contributo di Fondazione Cariplo – Progetto Cura
Milano, 08 marzo 2023
Abbiamo a lungo riflettutto se tentare di mettere insieme una recensione quanto più oggettiva di “Medea, una strega” di Filippo Renda, o astenerci, come abbiamo fatto altre volte con spettacoli di cui difficilmente avremmo avuto qualcosa di buono da dire. Perché, sia chiaro subito, questa “Medea” non è un bello spettacolo, inteso nel senso più ampio che si possa immaginare. E proprio questa “ampiezza” di senso crediamo vada spiegata, per chiarire la nostra posizione: non si tratta di uno spettacolo manchevole in qualche aspetto, quanto cresciuto male. “Medea, una strega” è un esempio non di incompiutezza, ma di ipertrofia – altrettanto sconsigliabile –, di esasperazione. Già il titolo presenta un’appendice di troppo (quell’”una strega”), quasi a giustificazione di ciò che ci aspetta a teatro – o, perché no, a promettere atmosfere molto specifiche. E quelle atmosfere, lungo lo spettacolo, ogni tanto si ricreano, ma in maniera tanto posticcia e impacciata che sfocia nel grottesco: al posto delle parti corali, infatti, assistiamo a una serie di “riti” tra l’espiazione e l’iniziazione, che sospendono l’azione scenica di una quasi ordinaria “Medea” di Euripide. Durante questi “riti”, gli attori ripetono antifone, e intanto si lavano, sputano, si tagliano, si bruciano con candele, con l’andamento degli spostati (e il pensiero corre spesso agli “Idioten” di Lars Von Trier), gesti a volte dissociati, suoni disarticolati: si pretenderebbero rituali per la Dea Madre, culto che già Pasolini (e prima di lui studiosi come Jane Harrison e Mario Untersteiner) aveva ricollegato alla vicenda della maga di Colchide. Nulla di nuovo, dunque? Ebbene, di nuovo non c’è il contenuto in sé, ma la forma drammaturgica che gli si dà: si sospende la tragedia, tutti gli attori escono dalla parte, parlano tra di loro, si spogliano, si rivestono, tutto in faccia al pubblico, il cui voyeurismo si concentra unicamente su questi momenti di “idiozia collettiva”, tralasciando del tutto gli episodi euripidei. Perché, tanto, è chiaro come il sole che a queste persone di Euripide importi molto relativamente: forse importa ad Alice Spisa, poiché interpreta Medea, e lo fa tentando qualche guizzo di originalità su una recitazione debole (contraddistinta, peraltro, da un colore vocale non piacevolissimo, alla lunga cantilenante); di certo non importa agli altri, che recitano spesso in souplesse, talvolta sbagliando le battute, nessuno in maniera che ci consenta di dire “che bella prova”, semplicemente perché la “prova” non c’è. Importa ancora meno, è evidente, proprio a Filippo Renda, che, se come regista può per lo meno ostentare un punto di vista, come attore si contraddistingue per una voce “piccola” e dalla cadenza siciliana, una fisicità inespressa, alcune linee interpretative non solo peregrine (come sull’esodo, quando al dramma del padre privato dei figli preferisce subentrare con risatine nervose – effetto Joker?). Euripide qui è una convenzione rispettata per il 50% del testo – giacché il resto è libera interpretazione, con Medea che si pone paladina femminista liberatrice delle donne di Corinto, e ogni tanto, qua e là, qualche insulto di troppo, giusto per veicolare il messaggio. Già, quale messaggio? Vuole essere teatro politico questo, come il “Living” dei tempi d’oro?…. Ogni tanto si sgancia qualche staffilata sull’accogliere le culture diverse, ma non si sostiene davvero nulla. È teatro di immagine? ….le scene di Eleonora Rossi e le luci di Fulvio Melli non mancano di fascino e originalità, ma non c’è una specifica attenzione sulla costruzione di tableaux vivants o un uso della luce tale da lasciar inferire una drammaturgia senza parola. Non trattandosi né di teatro danza (nonostante la lezione di zumba su musica techno che accoglie il pubblico possa lasciarlo presagire), né di performance pura (giacché il testo e la recitazione in senso tradizionale compaiono largamente), né di teatro-canzone, né di teatro di narrazione, non ci resta che il buon vecchio teatro di parola. Insomma, come avrebbe detto il Bardo, much ado about nothing: in fin dei conti tutte le trovate registiche si riconnettono in uno spettacolo, ci si consenta l’espressione, di “tradizione”. Questa è la ragione per la quale abbiamo alla fine deciso di scrivere questo pezzo: perché la tradizione, noi, la conosciamo perfettamente. E con tranquillità d’animo possiamo ribadire quanto questo “Medea, una strega” sia uno spettacolo poco riuscito, proprio poiché in costante conflitto con la sua identità drammaturgica: questa disforia di genere è tale che porta anche il pubblico a disorientarsi (“cosa stiamo guardando?” è la domanda che aleggia nell’aria) quando non a distrarsi, come già detto. Il teatro – di qualsiasi tipo – si fonda sul rispetto dello spettatore in quanto tale: lo si può trattare male (lo spettatore è masochista), lo si può mettere alla prova (è anche coraggioso), ma non gli si può dire “guarda altrove”. Noi, in quanto spettatori ancorché critici, abbiamo invece guardato dritto in scena. E qui abbiamo trovato uno spettacolo approssimativo, con una regia pretenziosa e, cosa più grave, uno scarso rispetto di Medea, del suo mito, dei suoi esiti letterari prima, durante e dopo Euripide, qui in locandina quasi a riempire uno spazio vuoto. Lo stesso – anche se per ragioni molto diversi – avevamo riscontrato anche in “Alcesti, una donna”, sempre di Renda: per questo ci sembra opportuno invitare il giovane regista a rimanere in campi a lui forse più vicini. Gli applausi scarsi e imbarazzati della pur piena sala del Teatro Litta, alla fine dello spettacolo, dovrebbero servirgli da conferma. Foto Sara Meliti