Napoli, Teatro Bellini: “Aspettando Godot”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2022/23
ASPETTANDO GODOT”
Opera teatrale di Samuel Beckett
Consulenza drammaturgica e assistenza regia Michalis Traitsis
Traduzione Carlo Fruttero
Pozzo PAOLO MUSIO
Vladimiro STEFANO RANDISI
Estragone ENZO VETRANO
Lucky GIULIO GERMANO CERVI
Ragazzo ROCCO ANCAROLA
Regia, Scene, Luci, Costumi Theodoros Terzopoulos
Progettazione Led Roberto Riccò
Musiche originali Panayiotis Velianitis
Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con Attis Theatre Company
Napoli, 28 febbraio 2023
«La morte, in fin dei conti, è solo cosa per matematici puri», scrive Thomas Bernhard nel suo tragico ritratto di «demenza fraterna», Amras: due fratelli, due rinnegati, in una torre, s’osservano e s’amano come due ossessi. Dal di fuori della torre, proviene niente; o, meglio, niente s’accoglie “effettivamente”: tutto è filtrato e, dunque, amplificato dalle mura della torre… ed anche il cinguettio d’un uccello assume un carattere irrealistico o d’irrealtà. Ciò che è irrealistico è, almeno formalmente, sempre perfetto, eterno – non privo d’una matematica e spaventosa «sovratemporalità».Parlando dei fratelli d’Amras, vi parlo dei due uomini, Vladimiro ed Estragone che, al Bellini, aspettano Godot. Aspettano… con la disperazione dei rinnegati; con la misteriosa rassegnazione dei credenti. Attendono d’essere visitati da una Entità, da un Cristo o da un Amico, forse. Ma, esprimendo aprioristicamente un autentico, seppur vago, tragico e vero sentimento d’Amicizia, nei confronti dell’Altro, assente e sempre presente, ammettono – inconsciamente, almeno, e con atrofizzante ironia – d’essere, tutto sommato, dei «cristiani»… ovvero, dei «godotiani». E s’amano e s’odiano, come due fratelli. Passando dal riso, frenetico e nevrotico, al pianto, totalizzante e drammatico: Amore e Morte attraversa ed avvelena, stupendamente, tutta l’opera. Infatti, come via di fuga dalla mancata e mitizzata venuta godotiana, uno dei due, con fredda e mostruosa leggerezza, propone ed offre, a sé stesso e al compagno, la morte: «Perché non c’impicchiamo…»: atteggiamento poeticamente nichilistico, atto d’estrema reazione ad una assenza o all’eterna e degradante attesa del Signor GODot… in breve, dunque, d’un DIO.Attesa che il regista-scenografo Theodoros Terzopoulos colloca in una funerea struttura a forma di croce (con dei pannelli che, scorrendo all’occorrenza, conferiscono a questo corpo anche la vaga forma d’una bara o d’un fosso), entro cui agiscono o, meglio, non-agiscono gli attori. Questo corpo strutturale (definito da strisce di luci a led progettate da Roberto Riccò) assume, poi, anche una autonomia narrativa, limite e vantaggio d’un «linguaggio puramente scenico», e non verbale, gestuale o umano. La trasformazione, effettuata dal regista, del Teatro dell’Assurdo beckettiano in un Teatro, che potremmo definire, poeticamente «simbolista» produce, almeno formalmente, per dirla con Pasolini, una «dilatazione» semiotica degli oggetti scenici; andando a comporre un concreto «sistema di segni», gli oggetti e l’intera struttura meccanica assumono una autonomia potentemente narrativa, che s’affianca alla struttura, già semanticamente allargata, d’un testo fortemente surrealistico. Ovvero: la scrittura del drammaturgo e poeta Samuel Beckett – frammentaria, aspra, potentemente oggettivata – reca in sé contraddizioni strutturali essenziali; contraddizioni che questa esemplificazione drammaturgica, curata da Michalis Traitsis e tradotta da Carlo Fruttero, conserva integralmente. Stilisticamente e linguisticamente, dunque, Beckett opera una poetica regolarizzazione della «pazzia». Ma, la follia d’una frase priva, apparentemente, d’un senso effettivo e, dunque, realistico deve poter conservare una sua affannosa vaghezza, uno smarrimento che è, ripetiamo, «essenziale»: se lo spettatore, «smarrito» e confuso, attende DIO (credendo, vagamente, che GODot possa essere DIO o un DIO, appunto), questa «supposizione», che l’intero corpo narrativo non risolve, non può trovare conferma o logicità in un oggetto scenico, come una croce bianca calata dall’alto, o nella forma della struttura scenica, nitidamente illuminata. Gli oggetti, dunque, assumono una funzione «narrante» che smaschera il «dilemma» dell’essenza «mistica» dell’opera. Coltellacci insanguinati, calati dall’alto e disposti scenicamente in forma di croce, non possono non rinviare, almeno idealmente, ad un sacrificio biblico. Questo svelamento dei prodromi dell’esperienza mistica che i due uomini attendono d’effettuare, attraverso l’incontro con Godot, consente alla rappresentazione d’assumere l’aspetto non d’un’opera, ma, d’una lettura «critica» ed evocativa dell’opera beckettiana, con dei passaggi narrativi così esplicitati che sembrano «documentaristici»: matematica ed ironica razionalità beckettiana condotta ad estreme conseguenze. Gli attori, dunque, adoperano un linguaggio frammentario, attraverso cui avviene una severa e netta rievocazione d’un parlato tutto apparentemente sconnesso o stanco; stanco d’attendere. Il lavorìo d’una esasperata, esasperante e costante «monotonia» – metaforica cristallizzazione della degradazione che reca in sé l’eterna attesa –, consente al linguaggio d’assumere un carattere potentemente irrealistico; una struttura linguistica, attraversata da poche variazioni d’intonazione, innestata in un’altra struttura, in un «sistema maggioritario», per dirla con Deleuze: una esoterica, magica o mistica «sovratemporalità». Qui, tutto è matematicamente perfetto (ed ecco l’esigenza, sia pure estetica, d’un linguaggio perfettamente accademico)… ma, tutto è estremizzato o totalizzante: le variazioni d’intonazione avvengono con estrema, e strana, veemenza; l’amore, tra i due uomini che attendono Godot, o è estremo (caratterizzato, dunque, anche da un sentimento vagamente omoerotico), o passa all’istinto opposto, al desidero di morte. E questa estremizzazione «formale» dei sentimenti definisce, pesantemente, anche la lingua dei movimenti e dei gesti – che vanno a comporre, poi, un’altra struttura linguistica, quella gestuale, la cui «espressività» consente alla medesima di sostituire, totalmente o parzialmente, sé stessa alla lingua verbale. Se l’azione è assente, i personaggi s’esprimono attraverso micro gesti, poetici movimenti dal carattere vagamente «mitico»: una ossessa, nervosa «ritualità» d’atti e gesti costantemente ripetuti. Ma, ogni atto presenta una variazione, sia pure minima, che lo rende «nuovo e sempre uguale», per dirla con Theodor Adorno, all’atto che lo ha preceduto. Tutto è fermo, tutto è uguale a sé stesso… ma, variazioni e mutamenti timidamente agiscono… ed il tempo, che ci appare come «sospeso», scorre, ahinoi, drammaticamente. E tutto ciò viene definito da musiche dal carattere sacro e danze gitane curate da Panayiotis Velianitis. Ottimi, dunque, tutti gli attori, preparati da Giulio Germano Cervi – e avvolti, peraltro, in appropriati costumi, a cura del regista medesimo: Paolo Musio (Pozzo), Stefano Randisi (Vladimiro), Enzo Vetrano (Estragone), Giulio Germano Cervi (Lucky), Rocco Ancarola (Ragazzo). Successo di pubblico tutto attento e numeroso. Foto di scena Johanna Weber