Roma, Sala Umberto: “Le ferite del vento”

Roma, Sala Umberto,  Stagione 2022/ 2023
“LE FERITE DEL VENTO”
di Juan Carlos Rubio
Giovanni COCHI PONZONI
Davide MATTEO TARANTO
Regia Alessio Pizzech
Scene Alessandro Chiti
Costumi Carla Ricotti
Musiche Paolo Coletta
Luci Michele Lavagna
Produzione Società per Attori e Teatro Civico La Spezia
Roma,16 Marzo 2023

“Ti aspetto e ogni giorno mi spengo poco per volta e ho dimenticato il tuo volto. Mi chiedono se la mia disperazione sia pari alla tua assenza no, è qualcosa di più: è un gesto di morte fissa che non ti so regalare” Alda Merini

Lo spettacolo teatrale “Le ferite del vento” di Carlos Rubio che ha debuttato alla Sala Umberto ci conduce in un labirinto emozionale, fatto di sentimenti profondi e misteriosi legami che resistono al passare degli anni e superano ogni limite di spazio e tempo. Al centro della trama domina la figura di Raffaele, un padre e un uomo che ha vissuto molteplici vite, ognuna delle quali ha lasciato una traccia indelebile nel suo animo ma non sempre emozionalmente maturate e condivise. La sua presenza-assenza permea ogni scena, evocando un’immagine sfuggente e inafferrabile, lontana anni luce dalle immagini stereotipate che aveva dato di sé in vita. Tuttavia, non è soltanto la figura di Raffaele a catalizzare l’attenzione dello spettatore, ma anche quella di Giovanni, l’altro protagonista della vicenda, che rappresenta la luce che cerca di penetrare nel buio dell’animo di Raffaele e di aprire la porta alla verità. Giovanni è il misterioso mittente delle lettere che Davide, il giovane figlio di Raffaele, trova nel suo scrigno chiuso ermeticamente. Questa corrispondenza appassionata rivela un segreto che cambia radicalmente la percezione di Davide sulla vita del padre. Egli scopre che Raffaele aveva una relazione con Giovanni, una relazione che era stata tenuta nascosta alla sua famiglia. In questo modo, “Le ferite del vento” ci introduce nel labirinto delle relazioni umane, mostrandoci quanto illusoria sia la convinzione di conoscere le persone care e quanto in realtà molto spesso siamo estranei al loro universo interiore. La pièce ci costringe a sospendere il giudizio quando si parla di “amore”, a guardare oltre le etichette e le apparenze per cercare la verità. Il linguaggio sofisticato della regia di Alessio Pizzech contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, in cui il tempo sembra fermarsi e le emozioni si cristallizzano in immagini potenti e suggestive. Preziosi oggetti di scena, come i fogli ingialliti delle lettere di Giovanni e il gatto immaginario (Gianluca come il nome di un amore passato) di cui Giovanni si serve per elaborare il suo lutto, diventano simboli di una realtà che va oltre l’apparenza e che solo attraverso un serrato dialogo può essere compresa. Il lavoro registico riesce con profonda tenerezza seppure si discosti  in molti aspetti dalla versione cinematografica a trasportarci all’interno di un racconto intenso e commovente, che ci parla della bellezza e dello stupore che derivano dal fuggire dagli stereotipi e rimettere in gioco il significato delle parole “padre” e “figlio”. Una pièce che ci invita a guardare oltre le maschere che indossiamo e a cercare la verità nelle profondità dell’animo umano. Il tema dominante  è solo ed esclusivamente l’affettività e non l’omosessualità o i rapporti familiari in genere:sarebbe veramente troppo banale. Le scene geometriche ideate da Alessandro Chiti si presentano come elementi semplici ma funzionali, in grado di fornire un supporto efficace alla parte recitativa della performance senza però oscurarne la componente empatica. Le ambientazioni sono infatti caratterizzate da una particolare attenzione alla loro essenzialità, evitando sovraccarichi scenografici che potrebbero distogliere l’attenzione dello spettatore dal nucleo centrale dello spettacolo. In questo senso, la scelta dei materiali utilizzati per la realizzazione delle scene risulta estremamente accurata, privilegiando l’utilizzo di elementi naturali come il legno ed il metallo, in grado di conferire un senso di concretezza e solidità alla rappresentazione scenica e dei tendaggi plasticati che risuonano e vibrano sotto “le ferite” di un vento interiore. Allo stesso tempo, tuttavia, l’impianto di Chiti è anche in grado di comunicare una serie di significati impliciti, che si manifestano attraverso un gioco di luci e ombre capaci di creare suggestioni emotive di grande impatto anche grazie al corretto lavoro di Michele Lavagna. Cochi Ponzoni (Giovanni) ha saputo mostrare con grande talento la fragilità e il disorientamento del personaggio di fronte alle difficoltà della vita, ma anche la sua forza interiore e la sua capacità di lottare per la propria dignità attraverso una recitazione sfacciatamente intima. Infatti ha evidenziato con grande tenerezza alcuni aspetti di quest’uomo solo ed ormai anziano che si sente chiamato a confrontarsi con se stesso e volente o nolente con un giovane che non capisce i suoi modi ed il suo sarcasmo. La rappresentazione delle lettere appassionate scritte a Raffaele (non chiare nel consenso) è stata un momento toccante e delicato della recitazione di Ponzoni, che ha saputo trasmettere con grande struggimento e partecipazione anche fisica.
La performance scenica di Matteo Taranto (Davide), ha saputo in parte cogliere con acme le sfumature del suo personaggio, ma ha anche  evidenziato alcune criticità, soprattutto rispetto al collega attore. In particolare ha espresso con una certa forzatura la fragile rabbia di questo figlio alla ricerca in primis di una propria identità, suscitando una certa distanza emotiva e una sensazione di poca naturalezza. Questo ha reso il suo personaggio meno coinvolgente e meno incisivo ed anche fisicamente meno impattante. Interessanti le musiche di Paolo Coletta (nella versione cinematografica la colonna sonora sono esclusivamente canzoni dell’ iconica Mina) anche se alle volte un po’ ripetitive. Un pubblico partecipe che ha riempito la sala del teatro con applausi ed una discreta partecipazione emotiva. Qui per le altre date.