Milano, Piccolo Teatro Strehler: “Il gabbiano”

Milano, Piccolo Teatro Strehler, Stagione 2022/33
IL GABBIANO”
Progetto Cechov, prima tappa.
Di Anton Cechov nella traduzione di Fausto Malcovati
Semën Semënovič Medvedenko GIORDANO AGRUSTA
Evgenij Sergeevič Dorn MAURIZIO CARDILLO
Maša ILARIA FALINI
Konstantin Gavrilovič Treplëv CHRISTIAN LA ROSA
Polina Andreevna ANGELA MALFITANO
Irina Nikolaevna Arkadina FRANCESCA MAZZA
Pëtr Nikolaevič Sorin ORIETTA NOTARI
Il’ja Afanas’evič Šamraev TINO ROSSI
Boris Alekseevič Trigorin MASSIMILIANO SPEZIANI
Nina Michajlovna Zarečnaja GIULIANA VIGOGNA
Regia Leonardo Lido
Scene e Luci Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Suono Franco Visioli
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT/ Teatro Mazionale, Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi
Milano, 13 aprile 2023
Anton Cechov rientra in quel canone occidentale del teatro che dovrebbe venire rispettato praticamente in tutte le stagioni da tutte le compagnie europee – i testi certo non mancano, né mancano di stimolare dramaturg, registi, interpreti. Apprezziamo dunque la scelta del Piccolo di Milano di non trascurare anche il grande maestro russo e proporre la sua opera giovanile, “Il gabbiano“, in una produzione interessante e attenta. La regia di Leonardo Lidi, infatti, dispone tutti i personaggi quasi sempre in scena, anche quando inattivi nel testo, costruendo un’efficace sensazione di coralità; le interpretazioni sono naturali, sicure, perlopiù scevre dai vizi di forma degli attori accademici, tutte orientate a veicolare quanto più possibile del testo; questo, tuttavia, e mai ci saremmo immaginati di dirlo, tende un po’ all’esasperazione, al non voler mancare nemmeno una parola, un’immagine, una similitudine: crediamo, invece, che un testo come questo necessiti di una minima ma strutturale rinfrescata, soprattutto per quanto riguarda i lunghi monologhi di Kostja e Trigorin, verbosi al limite della sopportazione di per sé, a prescindere dall’abilità dell’interprete. L’aderenza alla parola, peraltro, sembra supplire, in alcune scene, all’approfondimento dei significati drammaturgici, che sono tanti, su livelli diversi, e varrebbe la pena esplorarli meglio (un po’ debole, ad esempio, ci è parsa la cruciale scena della medicazione di Kostja da parte dell’Arkadina). L’ambientazione scenica (a cura di Nicolas Bovey) è inaspettata, ma non del tutto gradita: vediamo tutta l’area del palcoscenico spoglia, tiri e scaffali a vista, mura nude, fari su piantane e tutto il resto; se l’impatto estetico non è malvagio, arricchito anche dal contrasto coi costumi di Aurora Damanti, invece, coerenti al tempo della vicenda, tutta questa spoliazione, questa atmosfera laboratoriale, questa estenuante semplicità, non suonano azzeccatissime al luogo dove ci troviamo, né – e qui raccogliamo le proteste di alcuni spettatori – proporzionate al certo non altrettanto spartano prezzo del biglietto. Per quanto riguarda il cast, la prova è superata a pieni voti da tutti, con maggiore lode per Giuliana Vigogna, una Nina più adulta e sofferta di quanto di solito ci regalino le sue colleghe, e per Christian La Rosa, che costruisce un Kostja molto disinvolto, poco carico, più sottilmente votato all’autodistruzione che al fare rumore. Da manuale, quasi perfetta, anche la Maša di Ilaria Falini, capace di regalarci una interpretazione personale e incisiva, pur aderendo totalmente alla didascalia cecoviana. Due sono invece gli interpreti che ci hanno sollevato qualche perplessità: Massimiliano Speziani nella parte di Trigorin è quasi più Kostja di Kostja, troppo entusiasta, smodatamente sentimentale, senza tralasciare che una certa gigioneria d’antan rende la performance già vista; Orietta Notari nella parte en travesti di Sorin, per quanto si sforzi, non riesce a convincerci del suo Petruša bambinesco e giocondo – resta peraltro un mistero il perché di questa scelta bislacca e arbitraria. Bene le interpretazione per i ruoli di lato, la sofferta e sentimentale Polina di Angela Malfitano, il pragmatico Šamraev di Tino Rossi, il Dottor Dorn di Maurizio Cardillo, dotato del tipico distacco quasi sofistico, e soprattutto il grottesco, al limite col buffo, Medvedenko di Giordano Agrusta. Al finale si arriva un po’ con l’acqua alla gola – perché non va più di moda, al Piccolo, fare intervallo, a meno che l’opera non duri più di quattro ore, evidentemente – ma ci si arriva, peraltro con una resa piuttosto sottile e paradossale della tragica risoluzione di Kostja, che passa come una voce di corridoio tra le molte altre voci di tutti gli altri personaggi, senza sparo, senza troppo clamore. Quello che in fondo avrebbe voluto Cechov: una morte da niente tra gente da niente, quasi un poderoso, implacabile, tragico scherzo. Foto Gianluca Pantaleo