Nella bottega di un cembalaro del XXI secolo. Intervista a Sebastiano Calì

DCF 1.0

Un’arte antica, ma non troppo, verrebbe da dire, quella del cembalaro che da materiali inerti crea delle opere d’Arte al servizio di un’altra Arte, la musica. Antica, si diceva, perché risale ai sec. XVI-XVIII, ma anche contemporanea in virtù del ritorno d’interesse, verificatosi nella seconda metà del Novecento, nei confronti di questi strumenti e del repertorio composto per essi. Oggi non sono pochi, infatti, i cembalari che costruiscono strumenti su commissione imitando gli esemplari storici che, fortunatamente, sono sopravvissuti agli attacchi del tempo, dell’indifferenza e dell’incuria, determinate quest’ultime anche dall’affermazione del pianoforte, come strumento principe, tra quelli a tastiera. Ma come quest’arte è praticata oggi? Ad illustrarci questo lavoro è oggi un cembalaro italiano, Sebastiano Calì, la cui bottega si trova a Giarre, un comune alle falde dell’Etna, da dove esporta in tutta Europa gli strumenti da lui realizzati.
Puoi raccontarci come è nata la tua passione per la costruzione di strumenti storici a tastiera?
La mia passione per gli strumenti a tastiera nasce nel lontano 1985 in seguito alla visione del film Amadeus di Miloš Forman. Pur provenendo da una famiglia di musicisti dal momento che mia sorella studiava pianoforte e mio fratello sia pianoforte che composizione, non avevo alcuna familiarità con la musica antica. In quel film vi erano, infatti, strumenti antichi a tastiera, quasi tutti fortepiani e qualche clavicembalo, dai quali rimasi letteralmente folgorato. Avevo 12 anni e mezzo e quel film cambiò letteralmente la mia vita, in quanto, oltre a far nascere in me una grande passione per il repertorio composto per tali strumenti, parallelamente sviluppò il mio interesse anche per gli aspetti organologici. All’epoca era estremamente difficile reperire del materiale su questi strumenti, in quanto non c’era internet; riuscii a comprare allora due libri costosissimi (la Germania era ancora divisa in due) sulla collezione Grassi di Lipsia che erano in tedesco, che non conoscevo, ma che contenevano molte immagini sia di clavicordi sia di clavicembali. Desideravo ardentemente avere un clavicembalo, ma comprarne uno era proibitivo per la mia famiglia che  aveva da poco acquistato un pianoforte a coda (un quarto di coda) con sacrifici. Nel 1992 mi si presentò la possibilità di acquistare un kit di costruzione di un clavicembalo fiammingo a due tastiere che ho dovuto montare. L’operazione di montaggio fu per me una bella esperienza perché mi permise di imparare come era fatto un clavicembalo dall’interno anche se a livello di costruzione non conoscevo nulla. Nello stesso anno seguii ad Erice un corso di organologia e manutenzione degli strumenti antichi da penna con il noto cembalaro siciliano Ugo Casiglia. In quell’occasione, essendo anche l’unico allievo, acquisii l’80% di importanti competenze sulla manutenzione di questi strumenti che mi sono utili anche oggi. Da allora ho coltivato questo mio sogno di realizzare gli strumenti, avvalendomi anche del talento, donatomi dalla natura, nel disegnare, nell’intagliare e nel modellare, oltreché nel suonare, cose che faccio fin da bambino e, in questo lavoro, che è anche un’Arte, ho potuto mettere insieme tutti questi talenti. Essendo, inoltre, un perfezionista, cerco di trasmettere questo mio modo di essere negli strumenti che costruisco.
Nella tua ormai ventennale attività, quanti strumenti hai costruito?
In questo momento sto lavorando all’ Op. XXX
Dal momento che un clavicembalo o uno strumento a tastiera storico è sempre un pezzo unico come un’opera d’Arte, quali emozioni si provano nel costruirlo?
Per me è un’emozione incredibile, in quanto provo un’attrazione quasi “feticista” per questi strumenti. Per me realizzare dall’inizio la cassa e la struttura è un piacere immenso perché devo fare in modo che tutto combaci alla perfezione: gli incastri devono essere perfetti, gli incollaggi impeccabili. Ai molti che mi ammirano dicendomi che io lavoro con una precisione al millimetro, io rispondo che il decimo di millimetro è quello scarto che consente di ottenere o un incastro perfetto e, quindi, alle strutture di tenere, o di avere un incastro che si aprirà in brevissimo tempo. Lavorare al decimo di millimetro non è un’iperbole, ma è realmente così.  Ritornando al punto di partenza, posso dire di provare una grandissima emozione perché vedo che lo strumento cresce nei mesi. Ad essa si associa un piacere indescrivibile, soprattutto in considerazione del fatto che io realizzo a mano ogni minima parte del cembalo. Comunque il piacere più grande di tutti arriva alla fine, quando lo strumento è pronto e si può suonare. Quello è il momento culminante di un lavoro che dura dai sei mesi a un anno in base al tipo di strumento.
E quali, una volta realizzato, nel privarsene?
Si può dire che l’emozione è duplice e contrastante. Da una parte non  si può negare che c’è il dolore del distacco, in quanto non si può non provare una forma di affetto per uno strumento che hai creato e visto crescere lavorando ad esso a volte anche per più di un anno. Se penso a questo, non nego che è veramente dura privarsene. Dall’altra, però, provo una grande gioia quando consegno lo strumento a un musicista perché so che sarà visto, suonato e, quindi, produrrà emozioni anche in chi lo ascolterà. Diverso è il caso in cui lo strumento va a finire in un salotto ed è trattato come un oggetto bello, ma inerte e quasi senza vita. In questo caso provo un po’ di tristezza. In realtà provo un’altra sensazione che può apparire un po’ strana e che mi assale subito dopo aver consegnato il cembalo. È una sensazione di angoscia che mi prende nel momento in cui entro nel laboratorio vuoto perché ho appena consegnato il cembalo. Per spiegarmi meglio, devo dire che io ho un laboratorio molto piccolo, all’interno del quale posso costruire un cembalo alla volta che, dunque, lo occupa nella sua interezza per tutto il periodo della sua costruzione. Vedere, quindi, il laboratorio vuoto mi dà un senso di angoscia perché mi sento quasi come una mamma che ha appena partorito e ha la pancia vuota. Mi scuso per la metafora che può apparire inopportuna in quanto la nascita è certamente uno dei misteri più belli e straordinari dell’uomo, ma non riesco a spiegare diversamente tale sensazione che però viene superata da un’altra emozione, questa volta, di gioia, perché data dal fatto che sto per imbarcarmi in una nuova avventura e una nuova sfida che è quella di costruire uno strumento nuovo.
A tale proposito tra gli strumenti che hai costruito ce n’è uno di cui non avresti voluto privarti?
Sì… c’è. Si tratta di un “Colmar” Ruckers del 1624 (foto), realizzato nel 2013, che oggi si trova a Fontainebleau e che ha comportato un lavoro immenso dal punto di vista della manifattura. È, inoltre, uno strumento che ha un suono meraviglioso, dal quale mi sono separato con grande fatica. Non è andato a un clavicembalista professionista, ma a un critico musicale e in particolare al responsabile delle recensioni della musica barocca del mensile «Diapason», noto perché assegna il Diapason d’or ai CD.
Immagino che, quando si vende un clavicembalo, sia come cedere un proprio figlio. In genere riesci a seguirne le tracce?
A volte è possibile riuscire a seguire la “vita” dei miei strumenti. Di alcuni di essi che si trovano a Vienna o in zone vicine, ho notizie costanti da parte dei committenti, mentre di altri non ho più saputo nulla. Ci sono cinque o sei strumenti dei quali ho perso completamente le tracce. Uno di questi è quello su cui il Maestro Carchiolo ha inciso un CD che credo, oggi, sia in Albania, ma non ne sono sicuro.
Costruire un clavicembalo è un lavoro di estrema precisione oggi aiutato da dei macchinari. Qual è, se ce n’è una, la parte di un clavicembalo più difficile da costruire?
Non c’è una parte veramente difficile. Parlerei, più in generale, di operazioni estremamente complesse e delicate. Credo che l’operazione più complessa che io affronti nel costruire un clavicembalo sia costituita dagli incastri a coda di rondine nei clavicembali francesi settecenteschi perché sono realizzati a mano su angoli veramente irregolari. Devono essere fatti con estrema precisione perché l’incastro o può aprirsi da una parte o non chiudersi proprio dall’altra. Un’altra operazione estremamente delicata è costituita dalla realizzazione dei ponticelli sempre nei clavicembali franco-fiamminghi. Sono pezzi che io non curvo, ma che intaglio a mano senza alcun aiuto di macchinari. Sono io a segarli, poi, a piallarli a mano con dei pialletti particolari un po’ come si faceva 300 anni fa. È questo un lavoro molto delicato e lungo che, però, dà una soddisfazione quando, poi, vedi che le curve sono perfette e non ci sono parti in cui si formano gomiti. Essendo parti dello strumento a vista, inoltre, non si può descrivere la gioia nel vedere la bellezza del legno.
Preferisci costruire da solo tutte le parti del clavicembalo o inserire elementi della meccanica fabbricati da altri?
A parte le corde e i feltri io, in diversi casi, ho realizzato ogni parte del cembalo. Generalmente realizzo quasi tutto. Ad esempio tendo a comprare le caviglie e le punte dei ponticelli. Tutto il resto, lo realizzo a mano. Non compro per esempio salterelli o tastiere o ponticelli o altre parti. Preferisco fare quasi tutto da me. Anzi, aggiungo, che in alcuni strumenti ho realizzato anche caviglie e punte dei ponticelli. In questi strumenti, di cui un esempio è il Chouchet che ho costruito per la clavicembalista Chiara Massini, ogni parte è stata realizzata a mano a partire dai tondini di ferro, che ho tagliato ad uno ad uno per finire alle caviglie e alle punte dei ponticelli.
Tra i modelli di clavicembalo che hai imitato nella tua produzione ce n’è uno che ti ha creato particolari difficoltà?
Forse le due copie dei Michael Mietke (1700 ca), che ho realizzato rispettivamente nel 2008 (foto) e nel 2015. Sono strumenti con il doppio lato curvo e, in generale, quando c’è da realizzare una curva, si richiede sempre un lavoro complicato. Inoltre, il basamento è relizzato con un particolare intaglio e gambe squadrate, veramente complessi da costruire. Alla fine, però, è uno strumento che dà una grande gioia quando lo suoni. Oltre ai Mietke sono abbastanza complessi anche i francesi del Settecento.
e uno che ti ha maggiormente appassionato?
In realtà non c’è uno strumento che mi ha appassionato di più. Tutti mi hanno regalato emozioni nel momento in cui li ho realizzati. Bisogna dire che io non costruisco clavicembali da studio, ma strumenti che aspirano ad essere delle opere d’Arte. Ad ognuno di essi mi sono dedicato con intensa passione. Uno degli strumenti che mi hanno particolarmente entusiasmato è la copia del Guarracino del Royal College of Music perché è un  clavicembalo poco copiato e, pur essendo lungo un metro e 83 centimetri, ha un suono meraviglioso.
e quello che ritieni più bello per quanto riguarda il suono?
Direi sempre il Ruckers che si trova a Fontainebleau
I clavicembali, costruiti oggi, sono moderne imitazioni di quelli antichi. Ma si può dire che li riproducano fedelmente? Per esempio i Ruckers erano dei clavicembali a due tastiere traspositori. Oggi, in generale, vengono riprodotti utilizzando modelli ravalé, opera dei Francesi, in cui i due manuali avevano funzione espressiva.
Per quanto riguarda i doppi traspositori Ruckers è vero. Si può dire che quasi tutti gli strumenti sono stati allineati con meccanica cambiata e tastiere nuove. In realtà si potrebbero realizzare delle copie di questi strumenti che erano meravigliosi, sebbene ancora non si sappia con precisione quale fosse la loro destinazione. Mi sembra poco plausibile la tesi secondo cui questi doppi traspositori Ruckers sarebbero stati realizzati per facilitare la lettura quando si accompagnavano strumenti che erano accordati una quarta sotto, in quanto i musicisti che potevano permetterseli, sapevano sicuramente suonare senza alcun problema trasponendo all’istante. Io credo, in realtà, che i doppi traspositori fossero degli strumenti di punta all’interno del ricco catalogo dei Ruckers dove c’erano clavicembali da 4 piedi,  da 4 piedi e mezzo, da 5, da 8 ecc, oltreché virginali e strumenti combinati. Credo che il doppio traspositore fosse una “ammiraglia” che ne racchiudeva in sé quattro, quello di 4 piedi, quello di 8, quello di 6 e quello di 12. Questa, però, è solo una mia ipotesi che non ha alcun fondamento o riscontro certo su documenti.
Tra le storiche “scuole” costruttive (italiana, fiamminga, francese, tedesca) ce n’è una che preferisci e per quale motivo?
Basandomi sulla mia esperienza ventennale, preferisco sicuramente gli strumenti italiani, soprattutto quelli grandi che, se ben costruiti, sono veramente meravigliosi e danno una soddisfazione immensa. Per carità anche gli altri (i fiamminghi, i franco-fiamminghi, i francesi seicenteschi e i tedeschi) sono stupendi, ma, se dovessi sceglierne uno che soddisfi anche i miei gusti di musicista, andrei sicuramente su un italiano.
Hai mai costruito un strumento totalmente fedele all’originale senza che il committente abbia chiesto delle modifiche?
Il Ruckers-Couchet realizzato per Chiara Massini che non mi ha chiesto alcun cambiamento. Io l’ho realizzato senza trasposizione, ricopiandone tantissimi particolari originali. (descrizione al presente link).

Quali sono i materiali che preferisci utilizzare?
I materiali che preferisco utilizzare sono le essenze più idonee alle singole parti dello strumento. Inoltre cerco di attenermi a quelli originali. Per esempio in un cembalo italiano realizzo un somiere interamente di noce. Utilizzo per le casse il pioppo che ha una stupenda risonanza, anche se non è molto bello da vedere e per questo è ricoperto con decorazioni. Per la tavola armonica utilizzo l’abete rosso, anche se molti si servono dell’abete bianco, anch’esso superbo. Nel complesso evito di utilizzare materiali plastici. Mi servo di colla a caldo, di tipo animale, che, poi, era quella utilizzata anticamente per gli incollaggi all’interno del cembalo e che è sicuramente migliore di quelle moderne. Basti pensare a strumenti che hanno 400 anni di vita e sono ancora oggi perfettamente incollati.
Oggi si parla tanto di plettri in penne naturali o in delrin. Quale soluzione ti sentiresti di consigliare a un clavicembalista?
Se un clavicembalista ha la passione e la pazienza per modellarsi le penne naturali, sicuramente potrei consigliare quest’ultime. In realtà un clavicembalista, nella maggior parte dei casi, vorrebbe sedersi e suonare senza nemmeno accordare lo strumento. Se una persona suona tanto e sfrutta molto lo strumento, consiglierei un’impennatura in delrin, perché quelle naturali richiedono una maggiore manutenzione.
C’è un clavicembalo che hai sempre sognato di imitare?
Il Muselar fiammingo (madre e figlo) e, poi, anche un francese seicentesco perché sono strumenti meravigliosi per un particolare repertorio francese dell’epoca, come i lavori di Chambonnières, De la Guerre, Louis Couperin e molti altri.
Grazie per la disponibilità e per averci introdotto in questo mondo così affascinante perché ha un sapore di antico.