Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Daniele Gatti e Andrea Lucchesini per il ciclo sinfonico “Beethoven – Honegger e l’Europa”.

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Ciclo Beethoven-Honegger e l’Europa
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Pianoforte Andrea Lucchesini
Ludwig Van Beethoven: Concerto in mi bemolle maggiore op. 73 per pianoforte e orchestra Imperatore; Arthur Honegger: Sinfonia n. 4 Deliciae Basiliensis H. 191; Paul Hindemith: Konzertmusik per archi e ottoni op. 50

Firenze, 18 novembre 2023
Nella Sala Mehta, gremita come nelle grandi occasioni, è bastato osservare il gesto iniziale di Daniele Gatti, con il chiarissimo impulso, per entrare in medias res del Concerto beethoveniano composto nel 1809 e dedicato all’arciduca Rodolfo d’Asburgo. Il nome Imperatore sembra esser stato attribuito dall’editore e compositore Cramer, mentre per la tonalità (mi bemolle maggiore), l’organico orchestrale quasi identico, ecc., esso è associato alla Sinfonia n. 3 op. 55 (Eroica, 1804). La serata rientrava nel progetto «Beethoven-Honegger e l’Europa», ciclo di concerti curato dal direttore principale Gatti. L’accordo di mi bemolle maggiore in fortissimo (ff) sanciva l’incipit della comunanza d’intenti tra solista e direttore. Già nella sezione introduttiva del I movimento (Allegro), con i reiterati interventi cadenzali del solista, punteggiati dall’orchestra nella successione armonica (I-IV-V-I), gli ascoltatori attendevano desiderosi di comprendere le intenzioni interpretative. Andrea Lucchesini ha dimostrato un’attenzione particolare per la ricerca di espressività raffinate (bellissimi i pianissimi), e, in presenza delle pause, era intento all’ascolto degli strumenti, quasi a non voler rinunciare a nessuna vibrazione sonora. Gatti, dal canto suo, ha diretto con estrema eleganza e gesto sobrio, chiamando talvolta alcune entrate degli strumenti, in particolare per esigere maggiore espressività. In alcuni momenti bastava un piccolissimo impulso (come nel levare prima del ritorno del primo tema o in passaggi significativi ove occorrono condivisione o equilibrio) per richiamare l’attenzione e coinvolgere nel respiro dell’orchestra anche l’ascoltatore. Con lAdagio un poco mosso la dimensione era quella del sublime; è bastato ascoltare le prime sei battute del melos degli archi (con sordino), con successivo inserimento di alcuni legni ed il pizzicato dei bassi, per attirare subito l’attenzione del pubblico. Grazie al piccolo gesto legatissimo del direttore si poteva percepire non solo il bel colore del piano ma anche quell’effetto dolce e vellutato, ideale per l’ingresso (pp espressivo) del pianoforte. Lucchesini, molto ispirato, ha offerto intense emozioni con il canto della mano destra per poi lasciarsi condurre lentamente, attraverso le reiterate terzine, verso un’oasi di pace. Ogni singolo suono era cercato, declamato e pensato con un’espressività rara e sognante, difficile da rintracciare anche nei pianisti del passato, mentre nel cambio di armonia nell’accompagnare il melos emergeva un fraseggio impeccabile volto alla ricerca di respiri. In una sorprendente condensazione (a due battute dalla fine) il pianoforte, nella forma diminuita, anticipa il melos per poi riproporlo all’inizio del rondò (in 6/8) segnando il ritorno anche dell’impianto tonale (Allegro, mi bemolle maggiore) e concludere il Concerto. Ritorna il godimento del refrain in alternatim con gli episodi in cui la gioia esplosiva della musica, nella sua alternanza di luce-ombra, può riproporre elementi della scrittura già ascoltati che, oltre ad esprimere unitarietà alla partitura, ricompatta l’esultanza dei presenti per un Concerto destinato a rimanere nella memoria. Ai ripetuti applausi non si è fatta attendere la risposta del pianista che ha omaggiato il pubblico con uno struggente Klavierstücke di Brahms. La seconda parte, in cui l’orchestra era unica protagonista, presentava due partiture meno conosciute, autentici gioielli del Novecento in cui il colore ed il contrappunto rappresentano un topos più in particolare della musica francese, tedesca, italiana e russa tra fine XIX e inizi del XX secolo. Nella Sinfonia n. 4 Deliciae Basiliensis di Honegger già dal Lento e misterioso iniziale si percepivano sentimenti discordanti che potevano alludere ad un’apparente serenità postbellica ma anche ad atmosfere debussiane, in uno stile che strizza l’occhio anche alla politonalità, mentre il rigore contrappuntistico assorbito da Bach lo avvicina allo stesso Hindemith. La sinfonia vide la luce nel 1946, commissionata da Paul Sacher per il ventesimo anniversario dell’Orchestra da camera di Basilea. Grazie ad una lettura più esegetica della partitura, Gatti ha restituito con estrema limpidezza le varie arditezze armonico-contrappuntistiche, nonché una certa varietà della scrittura, differenziando talune fasce sonore monocolore fino a sonorità abissali come nel diminuendo del I movimento, la chiarezza formale della passacaglia all’inizio del Larghetto (viole, violoncelli e contrabbassi) e il ‘canto’ degli strumenti sempre molto espressivo. Ultimo brano in programma il Konzertmusik per archi e ottoni, composto nel 1930, omaggio per il 50mo anniversario della Boston Symphony Orchestra. Oltre alla ponderosa presenza degli ottoni (4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba) insieme agli archi, colpisce l’approccio da ‘artigiano’ di Hindemith che vede nella tradizione le radici per lo sviluppo del suo linguaggio, sempre guardando a Bach e al passato senza soluzione di continuità. Al netto contrasto dei due blocchi (ottoni-archi) corrisponde la stessa divisione della partitura in una prima parte (Mäßig schnell, mit Kraft. Sehr breit, aber stets fließend) dalla seconda (Lebhaft. Langsam. Im ersten Zeitmaß (Lebhaft) in cui si potevano cogliere reminiscenze della lontana policoralità fino alle più complesse sonorità novecentesche. Una musica che dimostra, pur con linguaggi diversi, quanto sia possibile far convivere tradizione e innovazione, la stessa che si può cogliere nella compagine orchestrale in cui è possibile trovare l’eccellenza che si rinnova tra le diverse generazioni. Se la nitidezza dei soli garantiva il fil rouge della narrazione, grazie all’interpretazione translucida del direttore si poteva percepire il complesso mondo hindemithiano. Gatti, mettendo in risalto ogni aspetto formale-strutturale della partitura, ha fatto emergere ogni piccolo dettaglio che nella sua esemplare direzione (rigorosamente a memoria) veniva espresso con estrema precisione, come nelle entrate del fugato all’inizio del Lebhaft. Grande successo e ovazioni del pubblico al pianista, ad un’orchestra smagliante e al suo direttore.