Maria Callas. Un trattato di canto (quinta parte)

Maria Callas (New York, 2 dicembre 1923 – Parigi, 16 settembre 1977)
Il senso dello stile
L’arte del fraseggiare occupa il posto più alto nella scienza del canto, ma soltanto il trascendere una tecnica pura agguerritissima può permettere all’esecutore di divenire un interprete consapevole, tenuto conto che ogni stile viene messo in luce a mezzo di una specifica tecnica vocale. Rimane il problema di ricercare tramite superamento di tale tecnica, il “modus” di far cantare personaggi assai lontani tra di loro, per  civiltà, cultura, ambiente, dando cioè una identificazione musicale-etnica al  personaggio. Quanti Filippo, sono simili a Mefistofele, quante Santuzze, simili alle varie Leonore verdiane, quanti Manrico  a Turiddu, e così via.  Non dimentichiamo che gli sforzi di sottoporre un cantante del tardo ‘900 a questo processo di identificazione sono di gran lunga superiore a quelli che si erano sottoposti cantanti del ‘700 o dell’800, che frequentemente erano da considerare dei veri e propri coautori dei ruoli chiamate ed eseguire. Un poo’ è un po’ quello che è accaduto con Luigi Nono con Liliana Poli o con Luciano Berio e Cathy Berberian. Il canto era inoltre era inteso a quei tempi in modo globale. Sappiamo che il maestro di canto di quel tempo, spesso era un compositore, a  volte un cantante, bravo o meno, non importava. I  trattati venivano dettati da musiche contemporanee, frutto cioè del particolare modo di sentire la musica  di quell’epoca precisa.
Oggi il cantante deve cercare di immedesimarsi in ognuno di questi stili diversi, il più delle volte però vi rinuncia per moltissimi motivi, quasi tutti di ordine culturale e non fa che ripetere sulla scena, mille volte se stesso. Lo diceva Richard Wagner: “I cantanti nella maggior parte non pronunciano bene, perciò ignorano il senso dei loro discorsi, il carattere dei loro personaggi è quasi sempre velato alla loro mente o veduto attraverso le banali convenzioni operistiche, vanno a tentoni o si incontrano allo scopo di piacere al pubblico, in certi accenti seminati qua e là, sospiri, gemiti alla bell’e meglio, generici”.
Maria Callas colse tutti di sorpresa, ella stessa  fu la prima meravigliarsi delle meraviglia altrui. Se è vero che Tullio Serafin  le propose di passare nel giro di una settimana dalla vocalità di Isotta a quella della Elvira dei Puritani, la cosa  fu accolta dalla cantante greca con estrema semplicità e sicurezza, nessuna avventura vocale da tentare, in ciò che a lei parve naturale, ossia il passaggio da una tecnica interpretativa ad un’altra, che invece generò sgomento tra gli esperti  e  in un pubblico abituato a identificare determinate voci in determinati ruoli, da tempi immemorabili. La Callas sembrò percorrere un cammino che ancora oggi, sembra sconosciuto alla maggior parte degli studiosi di canto. Ella inverti la rotta, sottopose arditamente la scienza vocale alla necessità drammatica trovando di volta in volta il modo di superare la difficoltà tecnica, nel momento in cui la situazione poetica lo richiedesse imperiosamente. La sua abilità interpretativa sta proprio nel dimenticare la propria identità vocale a vantaggio  del personaggio chiamato ad interpretare. Nessuna imitazione di modelli precedenti lo disse di se stessa a New York nel 1971 alla Juilliard School: “Non imitatemi, i miei dfetti sono inimitabili, così come lo sono i miei pregi.”
Infatti l’imitazione di un modello conduce sempre a un risultato negativo. Il cantante che si rifà al modello precedente, sia esso un grande cantante o il proprio insegnante di canto, fallirà nell’esprimere la propria identità artistica. Le copie altro non sono che brutte copie. La Callas dunque aveva piena coscienza che la sua voce assommava in sé, per misteriosi comunioni astrali, tutte le pagine dei primi trattatisti questo sul piano meramente tecnico. Non secondario il fatto che la Callas conosceva alla perfezione l’americano, il francese, l’italiano. L’origine greca favoriva tale conoscenza delle lingue. Sappiamo che i greci hanno un’estrema facilità a parlare le lingue straniere. La Callas conosceva la nostra lingua fin nelle più remote sfumature;  questo le permetteva l’esprimersi musicale del personaggio al punto di mettere in luce il significato musicale della parola, aldilà del significato ad esso attribuito. Attraversi i suoni ella parlò ai giovani degli anni ’50 più che agli anziani di quel decennio che, anzi, l’ascoltavano con sospetto ed imbarazzo.
La Callas fu l’interprete che il “nuovo” ascoltatore attendeva. Una interprete che pur sembrando di un “tempo remoto”  era al contempo espressione del proprio tempo. Elisabeth Schwarzkopf ha affermato:” Ogni cantante ha la sua tecnica, è vero, anche la Callas ebbe la sua, inimitabile. Ma perché? Perché la sua non fu una tecnica di canto propriamente detta indissolubilmente legata al fatto estetico, ma la tecnica dell’interpretazione. È questo forse, secondo il mio modesto parere, il maggior merito di questa cantante”. Si può azzardare a dire che questo tipo di tecnica sia proprio quella valuta dei vari trattatisti, ma anche da Verdi che andava dicendo “studiare la tecnica degli antichi maestri con la moderna declamazione”, Andava cioè affermando un “modus” di esprimersi attuale e non retrospettivo come si pretende da alcuni riguarda la Callas.

La sua dunque era una tecnica che riusciva a legare il mondo di due secoli fa al più moderno modo di sentire la musica. A tale proposito ascoltiamo l’aria “Suicidio” da La Gioconda, opera che Callas rilancia, sepolta com’era sotto la polvere retorica post-verdiana. Con abile intuizione ella ripulisce lo spartito, ne lustra i contorni, ne attenua i turgori, cari alle cosiddette “Glorie veriste”adoperando, di volta in volta, la voce “di testa” dove era tradizione quella usare quella di petto, addolcendo oltre misura l’uso del legato per nobilitare il carattere della protagonista dando “fuoco alle polveri” del canto di marca prettamente italiana in due o tre punti dell’opera. Mettendo a confronto le incisioni del 1952 con quella 1959 si deve dire che il lungo soggiorno in Italia non giovò  molto all’affinarsi del gusto e da parte della cantante, pagando un “tributo a Cesare”. Nel 1959 la Callas fa uso di uno stile un po’ troppo “all’italiana”. Già dalla frase “L’ultima Croce del mio cammin”  la cantante tende un po’ ad abusare  della voce di petto.

Da notare poi come la Callas, nel 1964, incidendo  l’Habanera della Carmen, l’affronta con uno stile che si può dire “cabaret”, con estrema leggerezza, con poche vibrazioni nel suono, alla Bizet, in sostenza.