Arezzo: presso l’Aditorium Guido D’Arezzo, l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Ion Marin

Arezzo, Caurum Hall -Auditorium Guido d’Arezzo: secondo concerto del cartellone sinfonico 2024
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Ion Marin
Wolfgang Amadeus Mozart (1756- 1791): Sinfonia n. 38 in re maggiore K. 504 “Praga”; Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893): Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36
Arezzo, 27 gennaio 2024
Nel gremitissimo Caurum Hall-Auditorium Guido d’Arezzo ha avuto luogo il secondo appuntamento della Stagione concertistica aretina 2024 organizzata dalla Fondazione Guido d’Arezzo sezione teatri. In programma due splendide partiture del repertorio sinfonico a cura dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Ion Marin. Il clima era quello dei grandi eventi, le aspettative lasciavano presagire il desiderio di entrare subito in medias res tanto che i brevi saluti istituzionali, del sindaco e del direttore artistico, sembravano risentire del monito mozartiano che indica prima la musica e poi le parole. La particolare acustica dell’Auditorium, restituendo ogni minimo dettaglio dell’esecuzione, viene più incontro al pubblico che ai musicisti. Va sottolineato il ruolo di Konzertmeister del violino di spalla il quale, tramite tra il direttore e l’orchestra, ha attirato lo sguardo degli altri musicisti ottenendo la ‘complicità’ necessaria per fare musica insieme. La Prager Symphonie, dal nome della città ove il 19 gennaio del 1787 avvenne la prima, è un’opera di Mozart tra le più conosciute come la “Haffner” (stessa tonalità), la “Linz” (presenza dell’Adagio introduttivo) e la “Jupiter”: tutte accomunate dall’inizio all’unisono distribuito su diverse ottave. Colpiva la collocazione, rispetto al direttore, dei violini (a sinistra i primi e a destra i secondi) i violoncelli e le viole al centro e i contrabbassi dietro i violoncelli. Il pubblico, nelle prime file a destra, poteva percepire la musica dal basso e ‘vedere’ edificare armonie, contrappunti, il melos e quant’altro generato da Mozart. A completare l’organico, una coppia di legni (flauti, oboi) al centro e in fila dietro agli archi, due corni a sinistra, due trombe e timpani più centrali e distanti. Dopo la grandiosa introduzione (Adagio) con alternanza di forti e piani nella tonalità d’impianto (re maggiore) e appena ‘fermati’ sull’ultimo accordo di dominante, il volgersi del direttore verso i primi violini annunciava l’Allegro nella consueta forma sonata con l’eterna dialettica tematica qui intesa come arte del dialogo. Dopo l’esordio degli archi (sincopato dei violini primi cui segue, negli altri, il canto omoritmico a voce bassa) è emersa un’alternanza tra leggerezza e trasparenza contrappuntistica. È bastato il gesto essenziale di Marin per assistere ad una compattezza fonica riconoscibile dagli interventi dei fiati e timpani. Nella sezione del piano e cantabile (inizio della seconda idea nella tonalità di la maggiore), la gestualità elegante e funzionale ha restituito una bella espressività mentre nella sezione dello “sviluppo”, per la scrittura in imitazione tra i violini, il direttore doveva ricorrere all’utilizzo distinto delle mani. La scelta poco scorrevole dell’Andante in 6/8 (sol maggiore), emersa dalla direzione in sei invece che in due, sembrava ispirarsi all’Andante ma un poco sostenuto 6/8 anziché, citando Harnoncourt, «nel senso di in avanti». Ma il canto era valorizzato, fin dall’esordio dei violini primi, mentre l’incontro tra strumentini ed archi era occasione per nuove e suggestive sonorità. Nel Finale (Presto) si è goduta ed apprezzata la scrittura a doppio coro ove all’alternanza archi-fiati si percepivano momenti in cui si compattava l’orchestra. Da un ascolto superficiale si era semplicemente ‘avvolti’ dai suoni, ma con una maggiore attenzione si coglieva una serie di dettagli significativi come: il movimento sincopato nell’Allegro, il ritorno alla tonalità d’impianto e la convivenza dell’eleganza formale con l’espressività. Con la sinfonia čajkovskiana si manifestano i segni del linguaggio tardo-romantico per le peculiari caratteristiche della scrittura e l’ampliamento dell’organico orchestrale. A chiarire descrizione e architettura formale di quest’opera basterebbe riferirsi alla lettera del compositore alla mecenate Nadežda Filaretovna von Meck, dedicataria della sinfonia cui viene esplicitata l’intenzione «per quanto è possibile [di] esprimere con parole ciò che significa». Tutto diventa rintracciabile in stati di malinconia e ricordi tanto da far dichiarare a Čajkovskij che «è dolce immergersi nel passato». L’Andante sostenuto – Moderato con anima corrisponde a «L’introduzione [e] contiene il germe di tutta una vita» diventando altresì una constatazione che non esiste un “porto” «Dobbiamo navigare su questo mare finché esso non ci inghiotte e non ci sommerge nelle sue profondità». La fanfara, nel triplo fortissimo con lo squillo delle trombe, arricchito dal contrappunto di altri strumenti (anche nelle reiterate apparizioni e soprattutto nell’amplificazione agitata degli archi), in una dimensione plurisignificativa stimolata dal rapporto simbolico interno all’effetto sonoro, inondava l’Auditorium di vibrazioni quasi ‘apocalittiche’. Nel Moderato assai, quasi Andante è bastato ascoltare il solo del primo fagotto (Alexander Grandal, dal bel suono e grande espressività), giovane musicista di origini danesi, per rendersi conto dell’eccellenza dell’orchestra anche in presenza di musicisti ospiti. Con l’Andantino in modo di canzona, con il solo del primo oboe accompagnato dal pizzicato degli archi, ripetuto dai violoncelli (molto bello anche nel cantabile del fagotto e delle viole e reiterato con la sostituzione di quest’ultimo con i violini primi), il pubblico veniva traghettato verso «quella sensazione melanconica che ci prende quando di sera siamo ormai del tutto soli e stanchi». In questa parte della sinfonia e nello Scherzo. Pizzicato degli archi («arabeschi capricciosi») l’espressività della sinistra del direttore faceva immaginare la fruttuosa concertazione in cui si apprezzava il divertissement dei legni nel Trio (Meno mosso) così intrigante (dopo la ripresa del pizzicato), riuscendo a coinvolgere con molta naturalezza le diverse sezioni orchestrali. Nel Finale. Allegro con fuoco l’orchestra esprimeva lo spirito della festa popolare in cui viene affermata la contagiosa gioia della vita che, pur fatta di salite e discese (come le stesse numerose scale diffuse in tutta la sinfonia), Čajkovskij ricorda che nonostante tutto «la vita è bella!».