Milano, Palazzo della Triennale: “Pittura italiana oggi” fino all’11 febbraio 2024

Milano, Palazzo della Triennale
PITTURA ITALIANA OGGI”
a cura di Damiano Gullì
Progetto di allestimento Studio Italo Rota
Honorary Board Francesco Bonami, Suzanne Hudson, Hans Ulrich Obrist
Centoventi opere di altrettanti artisti italiani, prodotte nell’ultimo triennio, sono le protagoniste della mostra alla Triennale di Milano “Pittura italiana oggi“, titolo generico quanto pretenzioso, che già non si attira la simpatia dell’avventore appassionato d’arte contemporanea, ma glissons. Fino all’11 febbraio, sarà possibile entrare in contatto, quindi, con quella che vuole essere una ponderosa summa di ciò che di pittorico si può trovare in giro, travalicando generi, stili, generazioni e qualsiasi altra classificazione ci possa venire in mente; tuttavia per dare un senso a questo intervento, cercare perlomeno delle linee guida sembra indispensabile: decidiamo allora di considerare queste opere dal punto di vista della loro consapevolezza artistica, ossia del dialogo che consciamente instaurano con la tradizione che le ha precedute e i fenomeni che, in un modo nell’altro, le hanno viste formarsi; sembrerebbe una categoria molto vasta, eppure, a ben vedere, sono davvero pochi gli artisti in grado di comunicare questa coscienza: perlopiù regnano arbitrarietà o epigonismo, cioè i due estremi opposti della nostra categoria, e questo francamente spiace. È vagamente consolatorio, tuttavia, accorgersi che entrambe queste visioni distorte del valore artistico affliggono soprattutto artisti attorno ai sessant’anni, mentre gli under 40 emergono veramente come le espressioni più interessanti della pittura italiana contemporanea – a cominciare da “Insostenibile dare un titolo (bruciare da dentro)” di Gianni Politi [dettaglio in foto, courtesy l’artista e Galleria Lorcann O’Neill], opera che apre la mostra e si pone l’obiettivo mirabilmente raggiunto di ricostruire astrattamente una celebre pala d’altare manierista – la “Deposizione” di Pontormo, più che l’“Assunta” di Tiziano che riporta il commento all’opera; poi Vera Portatadino e il suo “As the Sun burns the ground”, che si confronta con De Pisis e Dalì, comunicando l’intensità dell’assenza attraverso ampie campiture di colore sfumate col gessetto; come lei Linda Carrara, che in “Fondale. Il giorno” rifiuta l’astrattismo tout court per comunicarci un mondo acqueo e lattiginoso in cui perderci, dai rimandi escheriani e orientali; il “Solleone” di Roberto De Pinto, che strizza l’occhio all’illustrazione grafica e ad alcune atmosfere sincretiche (Balthus, Botero), specialmente nell’uniformità cromatica, riportando il sé dell’autore al cuore del discorso iconografico; “L’imperatrice” di Dario Pecoraro, che costruisce il soggetto, ispirato ai tarocchi, per strati decorativi, echeggiando tradizioni bizantine e simboliste; “Veicolo a motore si schianta contro un albero” di Aronne Pleuteri, il più giovane espositore e fra i più attenti a trattare la tela, nel quale un esasperato pittoricismo trasmuta un incidente stradale in un turbine di pennellate calibratissime e tese, che ricordano ugualmente Fragonard e Segantini, un’allucinazione tra naturale e artificiale à la Julia Ducournau; l’imponente “Notturno” di Thomas Berra, fascinoso gioco ton-sur-ton dal sapore tardo simbolista – strizzando l’occhio a Puvis de Chavannes e Rousseau Le Douanier. Queste, per sommi capi, le opere più interessanti tra le giovani leve; tra quelli più navigati, invece, senz’altro alcuni nomi sono già ben noti a collezionisti e critici, talvolta anche al grande pubblico (sebbene questo non ne garantisca la riuscita artistica): è il caso di Nicola Samorì, classe ‘78, il cui lavoro sulla deturpazione del supporto getta un ideale ponte tra il Seicento e Fontana, in un’operazione che non vuole avere nulla di irriverente quanto di disturbante (come la splendida riproduzione del San Sebastiano dello Spagnoletto su lastra d’onice presente in questa esposizione sub titulo “Irene cura l’informale”); suo coetaneo è Oscar Giaconia, che qui porta un’opera paradossalmente materica e per questo ipnotica, “Parasite soufflé”, che ci sfida a guardarla tanto quanto a riconoscere i nove materiali poggiati su una pelle plastificata, e solleva uno dei temi più cari ai pittori di questa generazione, ossia il labile confine tra io e natura. Una manciata, invece, le opere interessanti della generazione precedente, affette per lo più da un’autoreferenzialità difficile da penetrare; ritroviamo freschezza, invece, nelle sperimentazioni materiche di Stefano Arienti (qui con la rielaborazione in pongo su tela de “L’Ospedale a Saint Rémy” da Van Gogh); nel “Grande Corteo” di Luca Bertolo, che si pone l’arduo compito di riassumere il XX secolo in una serie di volti in marcia (con chiari richiami a Ensor), tra slogan, simboli e segni di interpretazione talvolta non immediata; nella “Fossa madre (Mother ditch)” di Enrico David (tutto incentrato sulla costruzione della tela, ripartita per geometriche aree di campitura, come in certe avanguardie); ma soprattutto nelle opere del siciliano Francesco Lauretta (“Oxygen”) e della milanese Fulvia Mendini (il dittico “Il mago” – nella foto – e “Fata simultanea”), che tra pop, queer e dada decostruiscono non solo il soggetto, ma il concetto stesso di opera d’arte: Lauretta ponendo fuori dalla tela il suo stesso significato (delle bombole d’ossigeno dipinte di rosa), svuotando l’intervento pittorico dell’ansia da messaggio che prende troppi suoi coetanei; Mendini proponendo un’estetica sfacciatamente naïf, al di là del semplice figurativismo e del design, alla ricerca di una bidimensionalità dalle cromie lisergiche, che al contempo non rinuncia a iconografie specifiche. La disposizione delle opere, a cura dello Studio Italo Rota, risente di un concetto un po’ passé di mostra, che più che valorizzare tende semplicemente ad accostare le opere, a volte in maniera un po’ ingenua (un angolo tutto verde, uno tutto rosa, uno tutto informale, un altro neofigurativo eccetera), altre invece ospitando opere site specific – tuttavia poco convincenti. La sensazione è chiaramente quella che sarebbe bastata la metà degli artisti nel medesimo spazio, ma evidentemente il curatore Damiano Gullì ha desiderato estendere l’invito a questa ricca collettanea al più vasto numero d’artisti, affinché si potesse coinvolgere realtà pittoriche molto diverse tra loro; questo, in effetti, resta il punto forte dell’esibizione: difficilmente troviamo raccolte così tante opere di tanti artisti diversi e, sebbene il valore artistico della maggior parte di costoro ci paia per lo meno latente, questa numerosa pluralità resta la ragione principale per visitare la mostra. Foto di Giorgio Benni e Piercarlo Quecchia, DSL Studio © Triennale Milano