Roma, Teatro Palladium:”Dance is not for us” di Omar Rajeh

Roma, Peatro Palladium, Centro di Produzione Nazionale della Danza “Orbita/ Spellbound”: Vertigine, la stagione danza 2024
“DANCE IS NOT FOR US”
Concept, scenografie e coreografie Omar Rajeh
Assistente coreografo e Co-writer Mia Habis
Drammaturgia Peggy Olislaegers
Musiche Joss Turnbull & Charbel Haber
Light design e Direzione tecnica Christian François
Produzione Omar Rajeh/Maqamat (LB)
Prima Nazionale
Roma, 12 gennaio 2024
Che cos’è la danza per il performer e per chi sceglie di vedere uno spettacolo? Chi siamo “noi” riuniti in attesa di una performance? Il coreografo franco-libanese Omar Rajeh si pone e ci pone queste domande nello spettacolo Dance is not for us, presentato in prima nazionale ad apertura di Vertigine, la terza edizione della stagione danza di Orbita/Spellbound. L’attesa dell’evento si trasforma in sospensione temporale che ci conduce verso la scoperta di una presenza dall’apparente sapore ordinario. Una piantina in mano, ricordi d’infanzia, una scrivania con un laptop sopra, scritte in inglese, italiano ed arabo. Nulla è però affidato al caso. Il protagonista ed autore dello spettacolo ci invita nel suo laboratorio creativo nutrito di considerevoli rimandi. Attraverso l’utilizzo di azioni fisiche Rajeh si impone di parlare di crescita, di comunità, di cicatrici dell’anima. E per poterlo fare si affida dapprima alla parola, al potere del racconto, necessario per esplicitare il riferimento a Beyrouth Jaune, la prima creazione realizzata per Maqamat nel 2002. Immancabile anche la menzione di Citerne Beirut, spazio produttivo “forzatamente smantellato nell’agosto 2019”. Ma in fondo la danza è una risposta alla musica, ed il suggerimento politico serve solo a fornire una chiave di lettura della partitura di gesti usata dal performer. In modo pregnante si avverte nei movimenti un’urgenza liberatoria che parte da dentro, oltre che dal corpo stesso. Il roteare, il saltare, il vortice descritto dal braccio ci rimandano all’essenza dell’agire umano. Il corpo non è altro che il modo per esprimere la propria identità, anche se il potere politico cerca di ingabbiarlo nei propri significati. Da qui l’evocazione. Il puntare il dito, il giudicare comunicano aggressività, mentre una mano accostata al petto richiama scenari di guerra. Il saltare diventa il tentativo di trovare una via di fuga. Facile rintracciare nelle espressioni del viso atteggiamenti di stanchezza. Dalla posizione seduta si passa alle convulsioni, che manifestano la propria protesta spirituale contro l’efferatezza vissuta in prima persona. Le scritte recitano: “Foto di danza. Foto di speranza. Noi qui ed ora”. Ed infine avviene lo straniamento. Il palcoscenico si trasforma in un giardino. Il concetto di cura nascosto simbolicamente nelle piante segnala che l’arte ha una fondamentale dimensione costruttiva. La narrazione proposta fin qui si qualifica come un’esperienza di dolore. E poco cambia se a provocare tale dolore sia la guerra o una banale ferita. Tutti quanti cerchiamo di allontanarne la portata per i motivi più diversi. L’unica speranza rimane il sentirci coinvolti nella prospettiva di un futuro connotato dall’apertura verso l’altro. Guidati da atti di gentilezza. Foto Giuseppe Follacchio