Milano, Piccolo Teatro Grassi, Stagione 2023/24
“ASPETTANDO GODOT”
di Samuel Beckett
Traduzione Carlo Fruttero
Estragone ENZO VETRANO
Vladimiro STEFANO RANDISI
Lucky GIULIO GERMANO CERVI
Pozzo PAOLO MUSIO
Ragazzo ROCCO ANCAROLA
Regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
Musiche originali Panayiotis Velianitis
Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con Attis Theatre Company
Milano, 8 marzo 2024
Con questa recensione solleveremo un’annosa questione: il valore letterario (o drammaturgico) delle opere teatrali coincide sempre con il loro valore teatrale, performativo? Questa domanda già se la posero nella tarda antichità i commentatori cristiani, quando, sulla scorta di Agostino, parlavano di oscenità della scena e non della pagina, vietando de facto la rappresentazione dei drammi antichi, non la loro lettura – che poteva avere un qualche valore anche in un’ottica cristiana. Ovviamente lontani da una prospettiva moralistica, oggi pensiamo che comunque prima di proporre al pubblico un’opera teatrale dovremmo interrogarci se quest’opera rispetti dei canoni (per quanto dagli ampissimi margini) di fruibilità sul piano performativo. Ebbene, il caso specifico cui mi riferisco è un testo arcinoto, celebratissimo, ma che in realtà non molti conoscono davvero: “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Ascritto a torto al filone del “teatro dell’assurdo” (benché Ionesco e Adamov siano ben altro), il capolavoro beckettiano si impernia sulla volontà strenuamente soggettivista di rifiutare tutti i parametri del teatro per come li conosciamo noi: non ci sono né personaggi né azioni certe, non racconta alcun evento, ma solo non-eventi o atti mancati, rifiuta l’alto e il basso della vita per registrarne solo la grottesca medietà. Tutto questo è assolutamente mirabile, tanto più perché per farlo si sceglie la forma dialogica tra personaggi, anarrativa e adescrittiva, e perciò il testo si configura come una pietra miliare della letteratura del Novecento (definizione suggellata dal Premio Nobel per la Letteratura nel 1969). Ma siamo sicuri che sul piano della rappresentazione questo testo incarni davvero una posizione di assoluta preminenza? Mi spiego meglio: posto che si possa mettere in scena “Aspettando Godot”, siamo certi che si debba? O forse non sarebbe meglio rispettarne l’integrità testuale e letteraria con una semplice personale lettura? Il dubbio – terribile e non dirimibile, temo – ci è sorto assistendo all’”Aspettando Godot” di Theodoros Terzopoulos al Piccolo di Milano: uno spettacolo interessantissimo dal punto di vista produttivo, molto ben recitato, ma, per usare un termine che un critico non dovrebbe usare mai, noioso. Soporifero. Letale. A un certo punto tanto noioso da innervosire, e far sorgere il desiderio di andarsene. Eppure, ribadiamolo per essere chiari, la messa in scena è davvero splendida, giocata su una semplice quanto efficace macchina scenica su cui gli attori stanno per la maggior parte del tempo e che nel suo aprirsi e chiudersi forma una croce luminosa (interpretazione piuttosto ordinaria, quella messianica, del testo, ma del tutto accettabile); le luci sono parte integrante di questa regia e, sia nel loro posizionamento, sia negli effetti che ottengono, raggiungono risultati d’impatto e per nulla calligrafici; le musiche originali di Panayiotis Velianitis sono molto suggestive e contribuiscono alla scelta di dare un taglio tragico allo spettacolo (d’altronde Terzopoulos è alla tragedia che si è dedicato con risultati esaltanti); il cast si assesta su un livello alto, come di meno non ci aspetteremmo da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, la coppia di protagonisti Gogo e Didi, attori di mirabile esperienza e persistente intensità, che senza dubbio si riconfermano nella loro indiscutibile maestria; ma anche Giulio Germano Cervi e Paolo Musio, l’altra coppia di personaggi, Lucky e Pozzo, dimostrano i loro talenti, in due interpretazioni che si spendono anche sul piano corporeo; forse solo il Ragazzo di Rocco Ancarola ci pare meno convincente sul piano vocale, ma assolutamente omogeneo ai suoi compagni su quello più generalmente attoriale. Il punto è, tuttavia, che un simile testo, con simili intenti e indicazioni, non consente davvero nemmeno di valutare le interpretazioni degli attori, giacché, se non abbiamo il personaggio, difficilmente avremo anche l’arte scenica. Gli stessi ruoli potrebbero interpretarli, con risultati abbastanza paragonabili, anche attori dilettanti ben istruiti da un regista – e sull’istruzione registica, se vediamo Terzopoulos, non possiamo proprio sindacare. Dunque torniamo al punto di partenza: cosa non ci è piaciuto di questo spettacolo? Non ci resta che orientarci sul testo stesso, sulla sua ridicola intoccabilità, sulla sua pretesa di rivoluzione che oggi non fa più presa (dato che la rivoluzione c’è stata, è pure finita e ci lecchiamo ancora le ferite), insomma sul suo manifesto rifiuto di diventare un classico. Ma rifiutarsi, a settantun anni, di diventare un classico – quindi di essere passibile di interpretazione, interpolazione, traduzione eccetera – lo relega semplicemente alla categoria di “vecchio”: “Aspettando Godot” è un testo vecchio. Leggiamolo, studiamolo, amiamolo, ma non mettiamolo più in scena. Non ne ha bisogno lui, né il suo autore (ci sono opere di Beckett molto più interessanti e ancora oggi meno note), né lo spettatore contemporaneo. Foto Johanna Weber