Brescia, Teatro Sociale: “La casa dei Rosmer” di Henrik Ibsen

Brescia, Teatro Sociale, Stagione 2023/24
LA CASA DEI ROSMER”
da Henrik Ibsen
P
rogetto ed elaborazione drammaturgica Elena Bucci Marco Sgrosso
Rebecca West ELENA BUCCI
Johannes Rosmer MARCO SGROSSO
Il rettore Kroll  EMANUELE CARUCCI VITERBI
Ulrik Brendel / Madama Helseth FRANCESCO PENNACCHIA
Peder Mortensgaard  VALERIO PIETROVITA
R
egia di Elena Bucci, con la collaborazione di Marco Sgrosso
Disegno luci Daria Grispino
D
rammaturgia sonora e cura del suono Raffaele Bassetti
S
cene Nomadea
C
ostumi Marta Solari
Produzione Teatro Metastasio di Prato, Centro Teatrale Bresciano, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale in collaborazione con Compagnia Le belle bandiere, sostenuta da Regione Emilia Romagna e Comune di Russi
Brescia, 02 aprile 2024
L’abbiamo detto e lo ripetiamo: non c’è abbastanza Ibsen nei cartelloni italiani. Probabilmente l’andazzo socio-politico che il Belpaese ha adottato negli ultimi dieci anni ha reso l’opera del genio norvegese davvero distante dal nostro modo di sentire e di intendere l’arte e il reale, sebbene sia anche vero che, se mai proponiamo al pubblico testi di una certa complessità, questo mai si abituerà ad apprezzarli. Un buon metodo per riprendere un consapevole discorso ibseniano con il pubblico italiano può essere quello di scegliere i testi più diretti ed emotivamente coinvolgenti e proporli in maniera fortemente evocativa, scenicamente accattivante; sulla base di questi semplici suggerimenti, ci dispiace constatare che “La casa dei Rosmer” prodotta dal Centro Teatrale Bresciano non si riveli una scelta particolarmente felice. In primo luogo, il testo appartiene al filone più introspettivo e psicologico del drammaturgo norvegese, che anticipa le sue ultime produzioni, consapevolmente infarcite di ambiguità, reticenze, simbolismi e questioni di natura etico-spirituale particolarmente sottili. “Rosmersholm” è, infatti, una sorta di testo a tesi, che tenta di rispondere alla domanda: “qual è la vera libertà?”, proponendoci i caratteri complessi e multisfaccettati di Johannes e Rebecca, convinti di essere immuni dalle meschinità della socialità di provincia, per poi accorgersi di esserne essi stessi tanto imbevuti da preferire la morte alla vita. Già in passato pochissimi registi in Italia si sono confrontati con questo testo fondamentalmente senza alcuna azione, e ci permettiamo di aggiungere che solo Massimo Castri riuscì a dargli un esito formidabile, grazie a una rilettura sostanzialmente freudiana dell’esilissima vicenda. Elena Bucci e Marco Sgrosso, per quanto interpreti di chiara fama e riconosciuto talento, non sembrano particolarmente a loro agio qui nelle vesti di registi, proponendo soluzioni di una desolante semplicità: tutti gli attori siedono in scena in attesa del loro turno e quando questo arriva si alzano, si portano al centro e parlano, senza usufruire di un appoggio, di un oggetto di scena, ma nemmeno di una progetto di posizionamento plastico che, forse, potrebbe dare un minimo di significato a ciò che viene detto. Non ci si può aspettare che oggi il pubblico ascolti per interesse quello che questi personaggi ci sciorinano: destare l’interesse è proprio il compito della regia, che qui latita in tutto e per tutto. Rimane irrisolta anche l’unica trovata interessante, che è quella di assegnare ad ogni personaggio un verso animale, come a volerne sottolineare il moralismo favolistico à la Lafontaine: peccato che questa natura animalesca si esprima unicamente all’inizio e alla fine del dramma, o in occasione dell’entrata e dell’uscita in scena, senza che questo contribuisca a una drammaturgia del corpo e del suono. Questa scena semplicissima è di poco arricchita da interessanti giochi di luce e di ombre dietro a teli bianchi sul fondo; occorre però riconoscere all’intero disegno luci di Daria Grispino un certo appeal, quel dinamismo che manca proprio alla regia. Il cast è composto senz’altro da validi professionisti, tra i quali giustamente spiccano i registi Sgrosso e Bucci, ma le performance non raggiungono un livello tale da vivere di vita propria, scavalcando le mancanze sceniche: gli attori recitano bene, con qualche piglio accademico o forzatura di troppo (specialmente Emanuele Carucci Viterbi, Kroll), con qualche ingenuo autocompiacimento (come Valerio Pietrovita, Mortensgaard), o, più semplicemente, con troppo manierato distacco, che li trasforma sovente in quasi immobili ripetitori sotto dei riflettori. Insomma, questa “Casa dei Rosmer” manca di anima, di una comunicativa diretta e di impatto che parli al cuore e alla pancia del pubblico, preferendo le orecchie e il cervello. Si replica a Brescia fino al 07 aprile, in chiusura di tournée. Foto Ilaria Costanzo