Milano, Teatro del Simposio, fACTORy 32, Stagione 2023/24
“REPARTO N. 6”
da Anton Cechov
Adattamento drammaturgico Antonello Antinolfi e Francesco Leschiera
Ivan Gromov/ Mikhail ETTORE DISTASIO
Dottor Jefimjc FRANCESCO LESCHIERA
Compagno di stanza ALESSANDRO MACCHI
Regia Francesco Leschiera
Scene e costumi Paola Ghiano e Francesco Leschiera
Elaborazioni e scelte musicali Antonello Antinolfi
Produzione Teatro del Simposio
Milano, 14 aprile 2024
Teatro del Simposio è una realtà milanese che dal 2012 porta in scena quei testi e quegli autori che hanno saputo gettare ponti verso di noi, con opere che ci guidino a una più profonda comprensione del nostro presente. “Reparto N. 6“, tratto da un racconto di Anton Cechov, non fa eccezione: qui il tema non è semplicemente la malattia mentale, ma la liceità del manicomio, del luogo di contenimento dei cosiddetti “pazzi”. Apprezziamo in primis, oltre al soggetto di indiscutibile interesse, il rispetto con cui la compagnia si è avvicinata al testo cecoviano, senza sentire il bisogno di attualizzarlo o stravolgerlo, né intervenendo in maniera grossolana tramite messe in scene alla moda: Cechov ci ha promesso e Cechov ci ha dato, con la sua grazia da sognatore, il leggero sarcasmo, ma anche l’afflato totalmente introspettivo, che indiscutibilmente tende a sfociare nel cerebrale. Con misura ammirevole, la regia interviene proprio su questi punti più deboli, aprendo il testo alla performance, alla ricerca di linguaggi più immediati. L’operazione può dirsi tutto sommato riuscita: infatti, benché permanga la tendenza tipicamente cecoviana al monologo interiore e al dialogo sui massimi sistemi, l’interpretazione, soprattutto di Ettore Distasio, cerca punti di contatto con l’intrattenimento, tiene desta la tensione del pubblico, usando senz’altro una punta di maniera e gigioneria, che tuttavia in questo contesto sono funzionali (oltre che mai esagerati); egli è Ivan Gromov, il paziente la cui stralunata vitalità risveglia nel suo medico dubbi antichissimi, non solo sulla sua professione, ma sulla sua stessa natura; nella mente del dottore, quindi, Gromov prende anche le fattezze di un vecchio amico, Michail, il ruolo in cui Distasio si lascia più andare a giochi, caratterizzazioni, amene buffonerie che ci rivelano la totale inconsistenza umana del “saggio Michail“. Il dottor Jefimjc, interpretato da Andrea Leschiera, è il vero personaggio cecoviano del racconto, il sano che si riscopre malato, incarnazione stessa della fallacia del sistema scientifico borghese: Leschiera è senz’altro un interprete navigato, ma gli manca un guizzo, una grammatura più solida – e la sua pronuncia, afflitta da una erre pesantemente blesa, in alcuni punti rischia di inficiare la sua prova persino sul livello della comprensione. Molto meglio il Leschiera regista, che costruisce uno spazio scenico sobrio ed efficace, e guida i suoi interpreti con precisione all’indagine del personaggio; l’uso della macchina del fumo tra una scena e l’altra, per quanto non piacevolissimo in uno spazio raccolto come quello della Factory 32, dà chiaramente il senso dell’ottundimento della ratio, del manicomio come realtà purgatoriale, mediana, dove tutto è per metà anche il suo contrario. Altro interessante intervento sul testo è la presenza in scena di un terzo attore, una specie di compagno di stanza di Gromov, dal movimento autisticamente ondulatorio e in grado solo di emettere suoni disarticolati, almeno fino al finale, nel quale prende vita per riferirci una chiave di lettura, o forse solo un’altra piccola e sanguinante testimonianza (un plauso ad Alessandro Macchi, che interpreta questo personaggio, fin da 20 minuti prima dell’inizio dello spettacolo, in scena). Il sonoro, curato da Antonello Antinolfi, è, infine, un’interessante cornice, composta di rumori ambientali più o meno inquietanti, di commenti musicali abbozzati, almeno fino al finale in cui esplode “By this river” di Brian Eno quasi come atto liberatorio. Nel complesso un piccolo spettacolo che tuttavia comunica non solo la riflessione di cui si fa portavoce, ma anche una cura, quella ricerca di qualità che vogliamo credere ancora caratterizzi il teatro “alto”.