Teatro Massimo di Palermo: “Die Walküre”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2013
“DIE WALKÜRE” (La Valchiria)
Prima giornata della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner 
Siegmund JOHN TRELEAVEN
Hunding ALEXEI TANOVITSKI
Wotan FRANZ HAWLATA
Sieglinde AUSRINE STUNDYTE
Brünnhilde LISE LINDSTROM
Fricka ANNA MARIA CHIURI
Gerhilde BRIGITTE WOHLFARTH
Ortlinde JULIA BORCHERT
Waltraute NIDIA PALACIOS
Schwertleite ANNETTE JAHNS
Helmwige NANCY WEIßBACH
Siegrune KREMENA DILCHEVA
Grimgerde EVA VOGEL
Roßweiße MANUELA BRESS
Orchestra del Teatro Massimo
Direttore Pietari Inkinen
Regia Graham Vick
Scene e costumi Richard Hudson
Movimenti mimici Ron Howell
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuovo allestimento del Teatro Massimo
Palermo, 21 febbraio 2013

Con la mente fresca e ancora imbevuta dell’atmosfera di Das Rheingold, ad un mese (quasi) esatto dall’inaugurazione della stagione, ecco comparire sul palcoscenico del Massimo la prima giornata della tetralogia wagneriana, Die Walküre. Giustamente la direzione artistica ha cercato di ridurre lo scarto temporale fra i primi due titoli – a differenza, ad esempio, di quanto avverrà fra la prima giornata e Siegfried – consentendo di cogliere il legame fra i due titoli, forse il più forte tra le opere del ciclo. Ma soprattutto la distanza ravvicinata fra le due rappresentazioni ha tenuta desta la curiosità del pubblico riguardo all’evoluzione del pensiero del regista, Graham Vick, che nel Prologo aveva convinto per concezione e invenzioni sceniche, regalandoci un allestimento di alto livello. In Die Walküre le cose però non funzionano altrettanto bene, a causa anche di una resa musicale non del tutto adeguata, con problemi scoperti che hanno influito sull’effetto generale della serata. A partire dall’orchestra, che in Das Rheingold aveva dimostrato qualche difficoltà e che qui risulta assente (in)giustificata, nonostante gli sforzi di Pietari Inkinen nel pervenire ad un suono tornito, musicalmente ampio e dal volume adeguato. Al contrario, nel corso dell’opera il suono orchestrale è apparso dimesso, sotto tono e con défaillance negli ottoni, mentre gli archi troppo spesso finivano per perdere quel ruolo trascinante che Wagner gli affida. Non sono mancati i momenti di coinvolgimento, come l’addio di Wotan nel terzo atto, ma troppo sporadici per consentire una valutazione positiva della prova dell’orchestra del Massimo.
La presenza di simili difficoltà – in tutti i casi, ma a maggior ragione nel caso di Wagner – è talmente sostanziale da produrre conseguenze determinanti per la buona riuscita dello spettacolo, in particolare per quelle sezioni dove è l’orchestra ad assumere il ruolo di vera protagonista. E se c’è un luogo della produzione wagneriana dove ciò accade in modo esemplare è nel primo atto di Die Walküre, a partire dalla tempesta sinfonica, vero capolavoro di espressione d’atmosfere attraverso i suoni. Da quel punto in poi è tutto un susseguirsi di sfumature, di chiaroscuri, di contrastanti emozioni, scaturite come fiume in piena da quell’incontro fra Siegmund e Sieglinde che darà origine al contrasto insanabile fra natura e civilizzazione, opportunamente individuato da Vick quale nodo concettuale della vicenda. Eppure, nonostante il pensiero essenzialmente coerente con il significato dell’opera, il regista ci mette del suo nell’aumentare il senso di distanza fra diversi piani, ideando soluzioni talvolta geniali, ma accompagnandole a scelte per lo meno discutibili. Il senso di maggiore spiazzamento si avverte proprio in questo primo atto: durante la tempesta vediamo in scena la rappresentazione degli antefatti, vale a dire il rapimento di Sieglinde, il matrimonio coatto e l’improvvisa comparsa del misterioso viandante che infigge Notung nel grande frassino. Vick risolve la scena con cruda violenza, sottolineando il possesso che il marito esercita, con sadica prevaricazione, sulla moglie. Questa condizione è però calata in un contesto contemporaneo che è sì attualizzante, ma che risulta gratuito e poco adatto al profilo della musica, condito di ammiccamenti, abiti cortissimi, catena da teppista e fotografia al muro.
Lo scollamento fra musica e regia si realizza poi nel momento in cui i due gemelli si incontrano e nello scambio di sguardi che costituisce, forse, il punto più intenso della partitura. Vick però spezza l’incanto e invece di bloccare i gesti, riduce il tutto al ferino abbeverarsi allo stesso catino, senza che i personaggi usino le mani, ma come fossero delle bestie, mentre l’orchestra sembra alludere a un rapimento lirico che diventa utopia. Il senso è chiaro e condivisibile (di lupi, in effetti, stiamo parlando) ma in questo, come in altri casi, il regista eccede, entrando in contrasto con il significato della musica. A peggiorare la situazione interviene il Siegmund di John Treleaven, più simile in fattezze e movimenti ad un goffo Alberich che al giovane eroe che dovrebbe incarnare (e l’abito pensato da Richard Hudson di certo non l’aiuta). Il timbro presenta un colore baritonale che risulta adatto al ruolo del Wälside, ma sia gli attacchi, sia gli acuti, sia i passaggi di registro appaiono insicuri e traballanti. Il tenore si riscatta nell’invocazione alla spada, resa con slancio e impeto eroico, subito prima che l’intervento di Wotan disveli la presenza di Notung (ma la vampa di fuoco è sostituita da una luce intermittente che ricorda più un neon malfermo). Per fortuna il canto di Sieglinde (Ausrine Stundyte) è denso di passione e si muove con fraseggio accattivante: è lei a condurre il gioco, restituendo le sfumature del racconto a Siegmund (“Den hehrsten Helden”) ed evidenziando, nel duetto, un’enfasi carnale che poi sfocerà nell’amplesso incestuoso. In questa parte, il regista interviene con maggiore aderenza e nella gestione dei movimenti risponde alla concezione della musica, improntata all’estasi e alla corporeità sensuale. Corporeità espressa anche dal basso Alexei Tanovitski (Hunding), voce possente e massiccia, rispondente al profilo da crudele aguzzino che gli viene assegnato.
Nel secondo atto ritroviamo personaggi e interpreti già presenti in Das Rheingold. Anna Maria Chiuri (Fricka) conferma e consolida la buona impressione del Prologo, sostituendo alle frasi dolcemente insinuanti un canto granitico, ben scandito e giustamente inflessibile. Franz Hawlata è un Wotan lacerato, il cui dissidio viene affogato tra i fumi dell’alcol. Ancor più che un mese fa, la voce del baritono è però apparsa in affanno, con alcuni suoni emessi di gola ed eccessivamente sforzati. Nonostante ciò, Hawlata è riuscito a risolvere con straordinario pathos le difficoltà canore, costruendo un Wotan scenicamente convincente. Nuovo personaggio è invece quello di Brünnhilde, interpretato da Lise Lindstrom, specializzata nel repertorio da soprano drammatico. La cantante statunitense ha acuti sicuri, tenuta di fiato generalmente salda e atteggiamento incisivo, sebbene le zone centrali e gravi manchino della giusta sonorità. Sia nel confronto con Wotan, sia nel dialogo con Siegmund, la Lindstrom mantiene una fisionomia netta e un registro elevato, in contrasto però con l’abbigliamento punk e con la gestualità iniziale. Essa si muove in uno scenario apocalittico, quasi frutto di una deflagrazione bellica, che lascia spazio a profonda desolazione e ad un senso di fine imminente. Nel terzo atto torniamo, infine, alla scarnificazione scenica del Prologo, che fa da sfondo allo struggente addio fra Wotan e Brünnhilde, passando attraverso i papaveri rossi delle prime due scene. La celebre Cavalcata presenta le consuete allusioni alla seconda guerra mondiale, ma tutto sommato la costruzione generale, il dinamismo dei movimenti e la lettura in chiave di prevaricazione (rispecchiamento perfetto di quanto visto con Hunding e Sieglinde) funzionano bene. Le valchirie, secondo Vick, sono figure essenzialmente sadiche che “attraverso la loro musica gloriosa, vuota, vana, promettono una beatitudine perfetta ed eterna”. Le otto interpreti aderiscono perfettamente a questa visione, con nota di merito per la Helmwige di Nancy Weißbach e, a seguire, per Ortlinde (Julia Borchert), Schwertleite (Annette Jahns) e Siegrune (Kremena Dilcheva).
Negli ultimi due atti il meccanismo registico è meglio condotto, ma non riesce a liberarsi del tutto di quegli eccessi di cui si è parlato. È vero che Brünnhilde è guerriera indomita e dal piglio androgino, ma non per questo deve atteggiarsi a cantante rock; è vero che Wotan vive in uno stato di selvaggio isolamento, ma non per questo deve alloggiare in una roulotte sgangherata; è vero che il sonno di Brünnhilde equivale a una vera e propria morte, ma non è necessario che il padre la rinchiuda in una body bag da obitorio. Le vere intuizioni e i colpi di genio risiedono, invece, in quel processo di antropomorfizzazione della natura che si pone in perfetta continuità con Das Rheingold e che spesso si accompagna al già citato coinvolgimento degli spettatori: dall’irruzione della primavera durante il duetto fra Siegmund e Sieglinde (rappresentata da coppie di innamorati che invadono la platea, mentre Sieglinde si aggira tra di loro), al turbine tempestoso di Brünnhilde in fuga (giovani in corsa che quasi travolgono i personaggi in scena), ai destrieri delle valchirie (interpretati da nove mimi, pressoché soggiogati dalle autoritarie padrone), fino all’invenzione dell’incantesimo del fuoco, dove – con straordinaria coerenza, e non potevamo aspettarci altra soluzione – Vick recluta tanti Loge che si siedono in cerchio intorno a Brünnhilde, simboleggiando le fiamme che ne custodiranno l’ultimo accenno di inviolabilità. Come in Das Rheingold, è ancora Loge a concludere l’opera, sebbene in silenzio e senza parole (ma ‘proferendo’ in orchestra il suo tema), in attesa che un eroe senza paura liberi un giorno la valchiria dal sonno magico al quale la disobbedienza d’amore l’ha condannata. Foto Franco Lannino/Studio Camera