Lugano, Teatro LAC: “Anna Bolena”

Lugano, Teatro LAC, Stagione Teatrale 2023/24
ANNA BOLENA
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani, tratto da “Anna Bolena” di Alessandro Pepoli e da “Henri VIII” di Marie-Joseph Chénier nella traduzione di Ippolito Pindemonte.
Musica di 
Gaetano Donizetti
Anna Bolena CARMELA REMIGIO
Enrico VIII 
MARCO BUSSI
Giovanna Seymour
 ARIANNA VENDITTELLI
Riccardo
 Percy RUZIL GATIN
Edgardo Rochefort
 LUIGI DI DONATO
Smeton
 PAOLA GARDINA
Hervey MARCELLO NARDIS
Orchestra I Classicisti
Coro della Radiotelevisione Svizzera
Direttore Diego Fasolis
Maestro del Coro Donato Sivo
Regia Carmelo Rifici
Scene Guido Buganza
Costumi Margherita Baldoni
Luci Alessandro Verrazzi
Nuovo allestimento LAC Lugano Arte e Cultura in coproduzione con Associazione “I Barocchisti”, RSI Radiotelevisione svizzera, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena
Lugano, 04 settembre 2023
La recita dell’“Anna Bolena” di Donizetti al LAC di Lugano impone una riflessione seria e che certo non si risolverà nelle poche righe di questo pezzo: fino a che punto un direttore d’orchestra, nell’organizzazione di un’opera, è un monarca assoluto, che impone i suoi desiderata e i suoi punti di vista a musicisti, cantanti, coro e pubblico? Fin a che punto egli è maestro concertatore e fino a che punto filologo musicale? Ieri sera Diego Fasolis – professionista internazionale di chiara fama, acclamato pure da molta critica, per questo mi permetto di prenderlo come esempio – ha proposto una “Bolena” di tre ore e mezza abbondanti, senza un taglio, senza mancare un ritornello, senza una cadenza o un abbellimento di tradizione, con due soprani nei ruoli principali, adducendo come giustificazione il fatto che “Donizetti l’ha scritta così”, e ostendendo alla fine del primo atto la partitura tipo particola all’Eucarestia. Come detto, Fasolis gode di larga fama e ha sempre, alle sue recite, una calorosa claque di aficionados che gli garantiscano applausi scroscianti (così è stato anche ieri), tuttavia, scambiando qualche impressione con gli spettatori “non convertiti”, la sensazione è quella di uno stillicidio, quando non un sequestro di persona. È saggio che un direttore imponga ad una piazza peraltro periferica (giacché Lugano non ha una vera stagione lirica, non possiede uno zoccolo duro di pubblico, all’interno della Confederazione non è certo considerata una piazza lirica di rilievo, e infatti si rivolge all’Italia per cercare coproduzioni) un’edizione filologica e pedissequa (oltre che pedante) di “Anna Bolena”? – si trattasse di un’opera rara, sarebbe comprensibile l’esigenza di una tale aderenza alla partitura, ma con un’opera così conosciuta si rischia di deludere anche le aspettative del pubblico. Si lascino aperte le questioni alla riflessione individuale (non esiste probabilmente una risposta univoca) per passare, invece, alla concertazione del maestro Fasolis, su cui più di un appunto ci sarebbe da fare: ci limitiamo a constatare che forse Donizetti non andrebbe diretto come “Elektra” di Richard Strauss, con tutta la virulenza e il costante predominio di dinamiche marcate e l’evidenza posta sulle percussioni. Anche le agogiche della direzione risultano talvolta pesantemente sfalzate rispetto alla tradizione – basti pensare a “Al dolce guidami”  esguita con il metronomo, senza un momento di abbandono – e pochissimo spazio viene lasciato agli applausi del pubblico, sovente abortiti dall’orchestra impetuosa e implacabile. Francamente non se ne capisce la ragione di questo modo nervoso e sguaiato di dirigere “Anna Bolena”, ma tant’è, come già detto, Fasolis è “Maestrissimo” riconosciuto, sarà una questione di gusto di chi scrive. Purtroppo a questa pachidermica “Bolena” contribuisce anche l’uniformità in toni di grigio-marrone-nero dell’impianto scenico di Guido Buganza, che vorrebbe sembrare innovativo, forse, e invece è un semplice praticabile rotante ai cui lati sono poste delle parete semovibili. L’effetto dei molti spazi di differente ampiezza e identità funziona, per carità, ma la sostanziale monocromia e il minimalismo esasperato della scena rende tutto un po’ uguale. Non aiuta nemmeno il progetto costumistico di Margherita Baldoni, francamente incomprensibile: non si rispetta un’epoca precisa, non uno stile, se non il già citato minimalismo delle forme e la monotonia dei colori; Anna nel secondo atto in finta pelle verde, comunque, ce la saremmo volentieri risparmiata e sfora nel kitsch, ancor più che Enrico nel primo su un cavallo di plastica. Unico aspetto veramente riuscito della scena è il disegno luci, intenso, suggestivo, in grado di cavare da tanta pulita staticità più dimensioni, un’atmosfera emotivamente multisfaccettata – bravo Alessandro Verazzi. La regia strictu sensu di Carmelo Rifici si vede poco e quello che si vede è talvolta scollato dall’ingombrante drammaturgia orchestrale: si apprezzano quei due guizzi di sorpresa – il ritratto di una donna che piange che emerge da sotto la vernice di un muro, alcuni tableau vivant ben costruiti – e poco altro. Specialmente il personaggio di Anna pare gestito in maniera discontinua: con le mani in mano per tutto il primo atto e poi sovrinterpretativa nel secondo, con gesti larghi, posizioni plastiche e mimica facciale marcata; il resto del cast molto più credibile e misurato, nel solco di una tradizione certamente meritevole di essere approfondita meglio. I solisti hanno fornito – almeno loro – tutti prove di grande pregio; Ruzil Gatin (Percy), il più applaudito, è stato la bella conferma della serata: il colore chiaro del tenore leggero ha saputo arrotondarsi, ispessirsi, e oggi ha l’autorevolezza di una grande voce, grazie soprattutto alla crescita tecnica dell’interprete nel padroneggiare la tessitura impervia del ruoloi e all’attenta, efficace cura del fraseggio. Ci aspettiamo che Gatin presto affronti anche i ruoli belliniani, per cui ormai sembra decisamente pronto. Marco Bussi è un’Enrico vocalmente solido, omogeneo nell’emissione del bel suono brunito che lo caratterizza, ma non per questo trascura il fraseggio, contraddistinto dalla nobiltà nel porgere e dal giusto grado di sofferto trasporto. Molto bene anche il Rochefort di Luigi De Donato, basso morbido dalla solidissima tecnica e dalla ricca gamma espressiva, Paola Gardina, che indossa con la disinvoltura che le è propria le vesti di Smeton e con una vocalità altrettanto appropriata, dai bei colori caldi e una linea di canto accuratamente cesellata, e Marcello Nardis, che ha saputo altrettanto valorizzare il ruolo di Hervey. La volontà dichiarata di Fasolis di rinverdire la competizione tra “primedonne”, che a suo dire ingolosiva il pubblico d’opera del tempo, porta qui alla  sfida – se di essa si può parlare – tra Carmela Remigio (Anna) e Arianna Vendittelli (Giovanna) vinta, a nostro parere, dalla seconda, per bellezza del colore, smalto vocale, morbidezza della linea di canto e commossa espressività. La sua Giovanna è priva di quel distacco che talvolta viene richiesto per far risaltare meglio Anna: ella è davvero serva fedele, quasi innamorata, della Regina, e la passione per Enrico si esprime in pochi momenti di struggente vampa d’eros. Tecnicamente, infine, Vendittelli mostra singolare maturità, padroneggiando filati e mezzevoci tanto quanto le impervie agilità del ruolo. Carmela Remigio, dal canto suo, è una Bolena navigata e apprezzatissima, ma la linea di canto, si presenta discontinua, inficiata nei centri da suoni innaturalmente intubati e  da una grande prudenza nell’affrontare il canto d’agilità. La performance è stata complessivamente di livello, ma un po’ al di sotto delle aspettative che una grande interprete dei nostri giorni, come il soprano abruzzese, sa creare. Infine, bellissima scoperta si è rivelato il Coro della Radiotelevisione Svizzera, sonoro, coeso, efficace anche quando diviso in semicori per genere, scenicamente coinvolto – un plauso al maestro Donato Sivo, ma anche al maestro Fasolis, che lo ha fatto crescere dagli Anni Novanta e ancora ne detiene la direzione artistica. In conclusione ci auguriamo che il LAC possa presto affiancare una vera stagione lirica a quella di prosa, e non si limiti più solamente a un titolo all’anno, in modo da assolvere anche alla funzione pedagogica sul pubblico ticinese, che solo una pluralità artistica e una diversificazione dei titoli possono garantire. Foto Masiar Pasquali