Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “La coscienza di Zeno” apre la nuova stagione di prosa

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman Stagione 2023/ 2024
LA COSCIENZA DI ZENO
di Italo Svevo
adattamento Monica Codena e Paolo Valerio
con Alessandro Haber, Alberto Onofrietti, Francesco Migliaccio
e con Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin, Giovanni Schiavo
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta

luci Gigi Saccomandi
musiche Oragravity
video Alessandro Papa
movimenti scena Monica Codena
presentato da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Goldenart Production
Roma, 17 ottobre 2023
L’opera del 1923 di Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”, si potrebbe considerare come un autentico manuale di psicologia. In quegli anni, le teorie psicanalitiche di Sigmund Freud stavano prendendo piede, le nevrosi del secolo scorso stavano nascendo e un’economia ossessiva stava emergendo, destinata a un imminente precipizio. A un secolo di distanza dal capolavoro di Svevo, il suo aspetto profetico risulta più evidente che mai, motivo per cui il regista Paolo Valerio ha deciso di portarlo sul palcoscenico. Dopo la prima al Teatro Rossetti di Trieste, la rappresentazione ha raggiunto il Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma. Il percorso personale di Zeno Corsini, figura centrale del romanzo e dell’adattamento teatrale di Tullio Kezich (1963), funge da pretesto per narrare un’esistenza qualsiasi. Quella di un uomo ordinario, né virtuoso né malvagio, né aitante né brutto, né incapace né brillante. Un individuo medio che, come la maggior parte, commette errori, vive nel dubbio, prova paura. Potrebbe sembrare un perdente, a tratti persino inadeguato. Ma Zeno è un vincitore nel suo genere. Non raggiunge sempre i suoi obiettivi, anzi, spesso deve adattarsi alle circostanze, deve fare compromessi. La vita gli accade senza che riesca a prenderne le redini, ma non la sabota. Rispetto ad altri personaggi, che inizialmente sembrano superiori a lui, alla fine Zeno può dirsi soddisfatto delle decisioni che ha preso, o che si è trovato a prendere. Per incarnare la figura dell’uomo borghese del Novecento, Zeno si sposa, sebbene non con la donna amata, e trova un’amante, poiché anche l’adulterio è parte integrante di una vita ordinaria. Così come gli affari. Zeno non è un lavoratore eccezionale, ma “se la cava”, fa del suo meglio. Le perdite, le sofferenze, le delusioni sono eventi quotidiani, simboleggiati dall’ultima sigaretta che decide di fumare, a cui ne seguono inesorabilmente altre. Dopotutto, Zeno non è uno che prende decisioni con facilità. Sono gli eventi travagliati della vita che lo fanno sentire un uomo “malato”: questo è come si descrive quando si confronta con il suo psicanalista, ma alla fine della sua introspezione comprende di essere afflitto da un male, incurabile: la malattia letale della vita. Marta Crisolini Malatesta, con la sua firma su scene e costumi, ci propone un viaggio immediato e affascinante in una splendida Trieste, crocevia di culture, personaggi e narrazioni fulcro della storia europea. Dalla “Coscienza di Zeno” alle “Elegie duinesi” di Rilke, fino alle poesie di Umberto Saba, senza dimenticare la visita di Freud a Trieste per studiare il sesso delle anguille. La scena è avvolta in un grigio cielo, che sembra evocare le spirali di fumo di Zeno Cosini e i tempi di Italo Svevo nella poco tersa città. I costumi, in sfumature di grigio perla e verde pallido, si stagliano contro l’impetuosità della pioggia che inonda la scena, dando vita a un’atmosfera densa e straordinariamente evocativa. Il palcoscenico è animato da proiezioni sfarzose e intelligenti ideate da Alessandro Papa che creano ambienti vari, dalle pareti interne damascate ai panorami esterni della piazza Unità, al Canal Grande, alla cattedrale di San Giusto. Ogni elemento è un richiamo a una dimensione profonda e a un’epoca specifica: gli arredi, i singoli oggetti di scena, tutti posizionati con grande intelligenza, lasciano spazio all’attore in scena e alle proiezioni stesse che dominano l’impatto visivo. La sincronia tra le azioni sceniche e le proiezioni è straordinario. Gli attori danzano e si muovono in una dimensione bidimensionale, talvolta proiettando se stessi, ma sempre in un ritmo sincronizzato che è a volte rallentato, a volte accelerato. Questa dinamica ha la capacità immediata di trascinare il pubblico in un mondo onirico, con una “coscienza” alterata, creando un’esperienza ipnotica.In questa messa in scena, tutto sembra convergere verso un’unica, irresistibile visione: quella di un mondo in cui il personale e il collettivo, il passato e il presente, si intrecciano in un dialogo continuo e affascinante. Alessandro Haber si immerge nel ruolo di Italo Svevo, incarnando l’umanità, la fragilità e la universalità del personaggio. Con il motto “la vita non è né brutta né bella ma è originale”, Haber, uno dei più versatili attori italiani, non si limita a recitare, ma abbraccia completamente il suo personaggio, rispettandolo con profonda devozione e timore reverenziale. Questo rispetto è evidente fin dalle prime battute, ma poi si intensifica, permettendo a Haber di essere travolto dalle emozioni. In omaggio al personaggio letterario di Svevo, la drammaturgia include due momenti in cui Haber racconta frammenti della propria vita – un tributo al padre e un omaggio a un amico lontano a Tel Aviv. Questa connessione personale, insieme alla sua eredità ebraica, lo lega alla comicità di Svevo, rendendolo l’attore ideale per questo ruolo impegnativo ma profondamente umano. La sua dizione può talvolta risultare poco chiara, una sfumatura che, nonostante l’uso del microfono, può causare la perdita di alcune parti. Tuttavia, l’importanza di questo aspetto svanisce di fronte alla profondità dell’impatto emotivo della sua performance. Tale intensità consente di perdonare qualsiasi imperfezione e giustifica pienamente l’applauso finale in piedi, un tributo meritato al fine della sua interpretazione. Nell’approfondimento dello scritto , ci si confronta con la stupefacente maestria di Italo Svevo nell’uso dell’ironia, un elemento che suscita un’ammirazione quasi trascendentale. È fondamentale sottolineare l’eventuale influenza della tradizione yiddish, con la sua ricchezza di umorismo pungente e profondo, sulla vena ironica di Svevo, di origini ebree. Benché si tratti di una congettura, è plausibile che l’ambiente culturale che ha permeato l’infanzia e l’adolescenza di Hector Schmitz, il vero nome di Svevo, abbia avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’ironia raffinata che costituisce l’essenza del suo terzo romanzo. Nonostante ciò, l’analisi della regia rivela una qualche mancanza dell’umorismo tipico di Svevo, che viene solamente accennato. Esistono tuttavia momenti di comicità nello scritto che dovrebbero suscitare una risata disarmante. Si pensi, ad esempio, all’impacciato corteggiamento di Zeno per Ada ( interpretata da una pungente Chiara Pellegrin ) durante una sessione spiritica nella residenza Malfenti. In questo contesto, l’illuminazione di Saccomandi, sempre maestosa, avvolge i personaggi in una luce rossa. Altrettanto esilarante è l’episodio del funerale equivocato, che porta Zeno a mancare il funerale del cognato Guido, interpretato magistralmente da Emanuele Fortunati. Nonostante questa mancanza, la regia sopperisce brillantemente con un’idea innovativa e coerente con la narrazione: l’instaurazione di una dualità nella personalità di Zeno. Da un lato, abbiamo la descrizione del suo passato, eseguita dal veterano Haber, che include sia gli episodi non raccontati ma vissuti nel ‘qui e ora’, come quelli con Augusta (interpretata da una dolce, materna e comprensiva Meredith Airò Farulla) e con l’amante Carla (interpretata da Valentina Violo, che da insicura diventa sempre più decisa fino a lasciare Zeno). D’altro canto, abbiamo il Zeno del presente, brillantemente rappresentato da Alberto Onofrietti, utilizzato come strumento per mettere in luce il suo rapporto con il padre (un bravo Francesco Migliaccio) e con l’amico Copler (un eccezionale Riccardo Maranzana). Nel gran finale della pièce, Zeno, nel monologo interpretato magistralmente da Alessandro Haber,  lascia intendere, senza mai dichiararlo esplicitamente, che il suo inaspettato successo commerciale, e ciò che lui stesso definisce come la sua “guarigione“, coincidono con attività di speculazione bellica. L’orizzonte dello scenario è definito dalla Grande Guerra, con il suo carico di orrori totalitari e tecnologici, che si profila come il contesto dell’ultima, terribile e al tempo stesso ironica immagine del dramma. L’immagine evocativa di un uomo, senza nome ma “più malato degli altri”, che si impadronisce di un “esplosivo senza pari”, si arrampica al centro della terra e provoca “un’esplosione enorme che nessuno udrà”, lasciando la terra a vagare nel cosmo, priva dei suoi parassiti e delle sue malattie. Un grido all’attualità feroce e soffocante.
La prima del Quirino è stata un trionfo, con il fragore degli applausi a riempire la sala. L’emozione palpabile del pubblico ha alimentato l’energia degli attori, che hanno risposto con gratitudine, tornando più al proscenio per ricevere il meritato riconoscimento.