Napoli, Teatro Bellini: “Ferdinando”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2023/24
FERDINANDO”
Commedia teatrale di Annibale Ruccello
Donna Clotilde SABRINA SCUCCIMARRA
Donna Gesualda ANNA RITA VITOLO
Don Catello ARTURO CIRILLO
Ferdinando RICCARDO CICCARELLI
Regia Arturo Cirillo
Scene Dario Gessati
Costumi Gianluca Falaschi
Musiche Francesco De Melis
Luci Paolo Manti
Collaborazione Regia Roberto Capasso
Assistente Regia Luciano Dell’Aglio
Produzione MARCHE TEATRO, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Napoli, 12 dicembre 2023
Agosto, 1870: il Regno delle Due Sicilie è da poco tramontato. Donna Clotilde, baronessa Castaldo de’ Lucanigro, resta fedele ai Borbone. Nostalgica e ipocondriaca, decide d’isolarsi, e di rinserrarsi nella decadente camera da letto d’una sua proprietà periferica. È la trama di Ferdinando: affresco romanzesco, poetico, storico; degno della penna del suo grande papà: l’attore e drammaturgo Annibale Ruccello – scomparso, purtroppo, troppo presto, a trent’anni, nel 1986. Un rivoluzionario della tradizione teatrale napoletana; l’erede, sia pure eretico, di Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo. Il carattere «rivoluzionario» della sua produzione teatrale proviene senz’altro da Pasolini: una scrittura vistosamente espressionistica, realistica: figlia disobbediente della tradizione; un testo «grottesco», comicissimo e tragico insieme… tutti elementi provenienti dall’intima vivacità d’una grazia tutta pasoliniana. Ruccello come Pasolini, un «eretico» del Teatro: i due papà del cosiddetto «Teatro della diversità» (ne parla ampiamente Oliviero Ponte di Pino in Un outsider del teatro? Alcuni appunti sui teatri di Pasolini – Prefazione in Porcile, Orgia, Bestia da stile): un certo teatro che, dunque, mira a innestare, anzi a integrare, in un quadro maggioritario – per dirla con Deleuze – tutto ciò che, invece, viene solitamente respinto ai margini e che viene etichettato come «diverso». Ed è un dramma pasoliniano a determinare contenutisticamente Ferdinando: Teorema, dramma non borghese, ma sulla borghesia. Donna Clotilde, dicevamo all’inizio, è in decadenza, come ogni personaggio del dramma (come la cugina-governante Gesualda e come il parroco del paese, Don Catello, parente alla lontana della baronessa); e tutti accettano d’essere soggetti-oggetti d’una sfrenata sessualità, dando voce a pulsioni disperatamente represse. Soltanto che ciò avviene attraverso il corpo d’un ragazzo, Ferdinando, appunto – un finto nipote della baronessa, interessato ad entrare in possesso d’una cassetta di brillanti. Proprio come in Teorema, la Venuta, vagamente sacra e religiosa, del ragazzo, sconvolge sessualmente e strutturalmente la vita d’una famiglia. Il ragazzo s’unisce carnalmente con ogni membro del gruppo familiare. E, mentre per Ferdinando, il Sesso diventa un modo attraverso cui poter affermare la propria presenza nel mondo… per i familiari, nvece, è un momento drammatico, perché li obbliga a fare i conti con le proprie «diversità», con le proprie scandalose manie che, prima della Venuta di Ferdinando, apparivano come dormienti. Si tratta d’una repressione anche fisica, perché il parroco e le due cugine costringono i loro corpi in vestiti scurissimi e dal carattere «pretesco», ideati da Gianluca Falaschi. Severissimi e austeri, come severa e austera è la camera da letto – progettata da Dario Gessati – entro cui avvengono i fatti, determinata da un drappo rosso vagamente chiesastico ed un mobilio antico e scricchiolante (ciò che resta d’una aristocrazia in decadenza e vittima d’un processo di secolarizzazione e borghesizzazione). La casa, come un corpo represso e reprimente, nitidamente illuminata da Paolo Manti. I quattro attori giocano con la lingua napoletana, che diventa fenomeno sonoro, foneticamente estetico ed estetizzante: armonie e musicalità d’una lingua robusta, vigorosa sette-otto-novecentesca. Basterebbe «ascoltare» Ferdinando per fare i conti con secoli di letteratura drammatica napoletana. Una lingua «altra», così fresca, poetica, ma così irrimediabilmente realistica. Sabrina Scuccimarra presta alla sua Donna Clotilde una voce potentemente espressionistica e caratterizzata da estreme, brusche e parossistiche variazioni d’intonazione, così brusche da apparire comiche e tragiche: il ritratto perfetto d’una donna costretta in una aggressività reprimente, in una vitalità che uno stato nevroticamente ipocondriaco ha amaramente soffocato. Soltanto Ferdinando, interpretato da Riccardo Ciccarelli, redime la donna da una condizione altrimenti disperata. Lui… fresco, ragazzo, reca in sé l’aria tragica d’una figura fiabesca e sottilmente tirannica. È lui l’antidoto ad una smorta quotidianità. E l’attore riesce a restituire tutto ciò, attraverso un fintamente affettuoso sentimentalismo e momenti d’erotica sfrontatezza. Altri due corpi diventano i luoghi della «rivoluzione»: il corpo del parroco, Don Catello, interpretato da Arturo Cirillo, e quello della governante, Donna Gesualda, interpretata da Anna Rita Vitolo: un parroco che non riesce a fare i conti con una omosessualità inflessibilmente repressa, sia pure ipocritamente soddisfatta nella penombra d’una sagrestia: Don Catello viene stupendamente dipinto da Cirillo in modo estremamente commovente, dando forma a sentimenti di caritatevole tenerezza. Anna Rita Vitolo, invece, offre un ritratto espressivamente variegato della sua Donna Gesualda, che sembra provenire dalla Gatta Cenerentola di De Simone. Personaggio veristico, carico d’un folclore popolare ed un ventaglio d’emozioni e sentimenti così vasto da scandalizzare, da far commuovere e sorridere. La regia, a firma di Arturo Cirillo, presenta un disegno scenico estremamente sintetico, costituito (soltanto in certi punti, inizialmente) da pose raffinate e romantiche, cariche di poetico lirismo – determinato anche dalle eleganti musiche di Francesco De Melis. Un sentimentalismo che, gradualmente, viene condotto ad estreme conseguenze – e ciò accade perché questa è un’opera «in divenire»: la sua forma, essenzialmente narrativa (almeno all’inizio), con l’arrivo di Ferdinando in casa della baronessa, inizia ad assumere la forma d’un «romanzo d’appendice», come afferma Ruccello medesimo; una degradazione formale determinata dalla degradazione «morale» dei fatti. Successo di pubblico, entusiasta e numeroso, per l’opera più importante, forse, della letteratura drammatica post-eduardiana. Foto Tommaso Le Pera.