Milano, Factory32:”Una specie di Alaska”

Milano, fACTORy32, Stagione 2023/24
UNA SPECIE DI ALASKA”
di Harold Pinter
Traduzione Alessandra Serra
Deborah NATASCHA PADOAN
Hornby MATTEO BANFI
Pauline ASIA MORELLINI
Regia Gabriele Calindri
Musiche originali Michele Voltini
Produzione CamparIPadoaN
Milano, 03 marzo 2024
Una specie di Alaska” è un atto unico di Harold Pinter ispirato a un fatto realmente accaduto: un’epidemia di encefalite letargica che ha attraversato il mondo nel Primo Dopoguerra, lasciando dietro di sé molti morti e molti patologici “dormienti”, incapaci di risvegliarsi fino a che nel 1964 la scoperta della L-Dopa ha consentito loro di tornare alla vita – per lo più, tuttavia, in condizioni a vari livelli drammatiche. La magistrale penna del Nobel per la Letteratura tratteggia un’ora di atmosfere rarefatte e intense, ricostruendo il risveglio della quarantenne Deborah di fronte al dottor Hornby e a sua sorella Pauline: Pinter non ha paura, come suo solito, di giocare con silenzi e non detti, e quando fa parlare i suoi personaggi ha un impressionante senso della misura – anche nei monologhi della rediviva Deborah, che hanno, come naturale, molto dello stream of consciousness. Il suo è un non-dramma, è il dramma della privazione, dell’assenza, di chi al risveglio si accorge di aver avuto una vita puramente sognata, teorica. Le si oppone la sorella Pauline, che invece una vita l’ha avuta, forse regalata, non meritata, esattamente come Deborah non ha meritato in alcun modo la malattia; Pauline tuttavia ha sposato il medico che è riuscito a curarla, e questo la pone in una strana condizione di doppia superiorità, che Deborah non sente di dover accettare necessariamente. Il coma di Deborah non è stato un idillio, ma un sogno vero e proprio, una rappresentazione simbolica, a tratti realistica e a tratti distorta, della realtà: ella conosce il Bene e il Male, la dolcezza e la furia, l’aldilà e l’aldiquà, anche se solo oniricamente, teoricamente. La narrazione di Pinter è così distante dalla malinconica epopea del dottor Sacks (che con il suo “Risvegli” testimoniò queste guarigioni “miracolose” che finirono anche al centro della popolare omonima pellicola del ‘91): se al dottore interessava raccontare effettivamente i fatti (le parabole drammatiche dei risvegliati), a Pinter interessa quel moment of being che va dal risveglio alla consapevolezza di essa, che si raggiunge con quel “Grazie” finale, che è sia il ringraziamento al medico e a Pauline per averla riportata alla vita, sia per aver voluto farlo, dando un piccolo ma sostanziale senso alla ripresa di una vita che in standby non aveva, comunque, smesso di esistere. Questi portati del testo arrivano in maniera più o meno efficace alla scena di Gabriele Calindri: il personaggio del medico ha necessariamente dovuto perdere autorevolezza, passando da un originale sessantenne a un interprete trentenne come Matteo Banfi, e così, dal grande burattinaio del risveglio (figura quasi trascendente) del testo, si arriva a un ricercatore inquieto, quasi impaurito del suo stesso risultato; Banfi, in questa versione, può dare una resa scenica convincente, supportata anche dal naturale fascino sia della fisicità che della voce dell’attore – tuttavia non siamo del tutto persuasi dell’adattamento. La Pauline di Asia Morellini, detto chiaramente, è la prova meno convincente del dramma, impostata anch’essa su un’interprete troppo giovane e anche scenicamente acerba – specialmente per la vocalità disomogenea e dalla caratterizzazione troppo spontanea. D’altro canto, certamente può dirsi soddisfatta Natascha Padoan, una Deborah coinvolta ed efficace, nella quale il physique du rôle corrisponde al personaggio originale di donna-bambina saggia e disperata, illuminante e pazza: la Padoan approfondisce il ruolo in ogni dimensione possibile, arrivando a stimolare persino la sensazione di disagio che spesso proviamo di fronte a un infermo. La regia di per sé si nutre dei talenti degli interpreti, ben organizzandoli nell’esiguo spazio che hanno a disposizione, ma non trovando mai un guizzo, un’estetica accattivante che riesca a conferire perlomeno ritmo a ciò che vediamo (e a nulla serve l’ironica richiesta di scuse che il regista pone sul materiale di sala); unico aspetto della produzione veramente riuscito è l’accostamento della scena alle musiche originali di Michele Voltini, che costituiscono una vera e propria soundtrack della pièce, spesso conferendo o sottraendo attenzione e significato a ciò che vediamo rappresentato.