Il docile signore del podio. Un saluto a Claudio Abbado

 Sono venuto a Bologna, l’altro giorno. Lo ricorderai, credo. Ci siamo incrociati a pochi passi dalla tua abitazione in Piazza Santo Stefano. Continuavo incessantemente a guardare il portone di ingresso del palazzo, nella vana speranza che da un momento all’altro ne avresti varcato la soglia, perché desideroso di buttare un occhio sulla piazza o magari scambiare qualche parola con Don Giovanni Nicolini.
Devio, però, verso la chiesa, e chiedo: «Mi scusi, si va di qua per il Maestro Abbado?». Non riesco a pronunciare quel termine “Camera Ardente”, mi sforzo ma non riesco, quasi non ne accettassi l’idea. Prendo così il mio posto in una fila composta e arginata dalle transenne, assorta in un mistico silenzio (rotto solo da uno squillo di un cellulare impertinente); un silenzio che tanto mi richiama alla mente quell’istante conclusivo di ogni tuo concerto in cui si attendeva trepidanti che abbassassi la bacchetta e concedessi alla tua musica la gioia del nostro applauso più affettuoso e caloroso.
Claudio AbbadoCammino indegnamente su un tappeto rosso che guida passi e sguardo smarriti verso l’ingresso della chiesa, dove mi aspettano istanti di un dialogo fatto di silenzi. La luce soffusa lascia comunque intravedere tutto: intorno a te, vasi di girasoli raggianti ti avvolgono come orchestrali intorno al loro maestro; poco più infondo cinque sedie disposte a semicerchio e dei leggii. «Sei ancora una volta sul podio», mi dico per rassicurarmi. Nelle navate, si susseguono gli stendardi del comune della tua Bologna, della Regione Emilia Romagna, del Comune di Milano, della Regione Lombardia. Sono tutti variopinti, con accostamenti cromatici forti, paradossali tanto da sembrare casuali. Ognuno di questi era addobbato in un modo quasi grottesco: in alto, sulla sinistra, un fiocco tricolore, dall’altro lato uno nero, al quale ogni altro colore veniva negato. «Vedi, come in una prima, hanno messo il papillon agli stendardi – tento ancora di rassicurarmi – nella loro astrusa vivacità, hanno un che di chic».
Rimango a lungo nascosto e impietrito dietro una delle enormi colonne sulla sinistra, da questa ogni tanto faccio capolino per vederti in mezzo ai girasoli e per farmi notare da te. In questi attimi ti osservo, poi lo sguardo vaga intorno, come smarrito e confortato allo stesso tempo da un via vai ininterrotto di amici comuni che con me e come me hanno deciso di passare a darti un saluto veloce o di fermarsi a lungo quasi come per assistere impotenti al tuo ultimo concerto.

Come lo sguardo, anche la mente è smarrita, pensieri si affastellano senza sosta: si sovrappongono istanti della tua carriera artistica a momenti della mia vita personale. Non so il perché, sta di fatto che accade. Così, mentre ragiono sul tempo che ho perso a privarmi del piacere della tua musica, ritornano alla mente i tuoi anni da studente, quelli al conservatorio di Milano e quelli viennesi del perfezionamento. Di tutto questo so molto poco, e quel poco che so lo so dai libri e dai racconti. Ricordo poco, per ragioni anagrafiche, anche i tuoi anni scaligeri, ma paradossalmente conosco assai bene gli immutati meriti dell’indimenticabile trilogia rossiniana con Ponnelle, del Macbeth e del Simone con Strehler, del Boris, della Carmen. Intrecciavi questi capolavori a quelli contemporanei, a quelli di Berg, Stravinskij, Schönberg, Stockhausen, Berio e Nono; ti eri intestardito a portare la musica anche lontano dalle sale da concerto e dai teatri, di sottoporla all’acutezza critica dei giovani, di trasformare capanni e fabbriche, abituati solo agli assordanti rumori delle macchine, in docili luoghi di ascolto. Una evangelizzazione laica mi piace definirla!
Claudio AbbadoRipenso poi alle tue orchestre, alla Filarmonica della Scala, dalla quale sei ritornato in tempi recenti come un padre che dopo tanto va a trovare un figlio lontano; ai Berliner Philarmoniker, che ti scelsero come loro direttore stabile e artistico nell’89, subito dopo Karajan; all’Orchestra dello Staatsoper di Vienna, di cui sei stato direttore musicale dal 1986 al 1991; all’Orchestra del Festival di Lucerna, e ancora alla European Community Youth Orchestra, che hai fondato nel 1978, alla Chamber Orchestra of Europe, classe 1981, alla Gustav Mahler Jugendorchester, classe 1986, alla Simon Bolivar, della quale fanno parte giovani di tutti i paesi del Sudamerica provenienti dai barrios e dalle favelas. Penso anche e soprattutto all’Orchestra Mozart e mi chiedo quale sorte la attenda, anche se il ministro Bray ha giurato che farà di tutto per salvarla! Concedimi una punta di velato pessimismo: spero non sia stata una frase di circostanza, spero che anche lui non preferisca rimandare a domani quello che si può fare fin da oggi! Lo hanno già fatto in tanti…
Tutte quelle orchestre, Claudio, condividono ora il medesimo smarrimento e il medesimo senso di abbandono, non da parte dello Stato, ma da parte del loro Maestro. Quelle più giovani ti ringraziano (e continueranno a farlo in ogni concerto) per averle plasmate con affetto di padre e averle rese degne concorrenti e rivali delle maggiori orchestre del mondo. Anche i giovani che le compongono vogliono dirti il loro “grazie”, per aver tenacemente creduto in ciascuno di loro, per aver fatto loro sperimentare la musica come mezzo per crescere nell’unità, attraverso la condivisione con te del loro studio, delle prove e dell’esecuzione.

Questi stessi giovani hanno vissuto con te la musica come esperienza di confronto, dialogo e condivisione, scoprendola strumento per costruire ponti e abbattere muri. Noi, con loro, seppure da una prospettiva diversa, abbiamo ammirato estasiati la musicalità del tuo gesto, misurato ed elegante, ci siamo più volte meravigliati per la docilità con la quale tutti vi obbedivano: niente nelle tue mani aveva la prorompente forza di un ordine, altresì la docilità di una paterna carezza.
In ogni concerto si è poi fatta strada in noi la certezza della musica non come scienza matematica, e in quanto tale definita e definitiva, immutata nel tempo, ma come realtà in perenne divenire; lo studio tenace, l’approfondimento, il dialogo e il confronto la rendevano sempre disciplina viva. Così, non solo con te il mondo ha scoperto i mille volti di un compositore (Beethoven, Mozart, Mahler, Brahms, Dvorák o Mendelssohn) e i mille volti di uno stesso brano: ad ogni concerto la stessa sinfonia sembrava diversa e nuova, il risultato di un’indagine e di una ricerca vagliata dal pensiero, dalla mente e, in ultimo, risultato di una condivisione con i tuoi musicisti e, spesso, di una tua personale esperienza di vita.
Claudio AbbadoLa più dura di queste, sicuramente, la malattia che non ti ha mai negato la voglia di vivere, di studiare e di fare musica, è vero, ma ti consumato nel fisico e reso sempre più ineffabile; soprattutto ti ha dato di conoscere, meditare, indagare e sviscerare il dolore nella sua dimensione più autentica; leggo questo dietro molte tue “vittorie” dell’ultimo decennio, lo leggo soprattutto dietro il tuo Beethoven: un’indagine profonda sul senso ultimo della sofferenza, del dolore, sul quale fino ad ora ha sempre vinto in te quella vitalistica gioia che pervade l’ultimo movimento della IX Sinfonia.
Dietro quella grossa colonna, mentre lo sguardo si smarriva e ascoltavo la tua musica che riempiva lo spazio della basilica rendendoti ancora immensamente presente, ripensavo alle tue battaglie, come quella in tenace difesa della cultura italiana in Italia e nel mondo (che ti è valsa la nomina a Senatore a vita), ripensavo ai momenti in cui la tua figura esile e asciutta veniva sommersa dagli applausi, allora ti affrettavi a scendere dal podio per raccoglierli fra gli orchestrali, per condividerli con loro; allora ogni successo, poiché insieme costruito, veniva insieme condiviso. E oggi? Niente applausi, nessuna condivisione, nessun boato di entusiasmo, solo silenzio, un assordante silenzio che, caro Claudio, ti riesce difficile condividere proprio perché è intimamente dedicato a te. In questo silenzio, l’ascolto contemplativo della tua musica lascia sgorgare in me e in ciascuno degli sguardi che incontro un dialogo profondo con te che mi auguro abbia il sapore dell’eternità. Prima di salutarti, un ultimo pensiero: quel podio è ora tremendamente vuoto. Non posso chiederti di tornare, nessuno può farlo, ci resta solo la tua musica: spero almeno quella riesca a colmare il dolore del distacco. Ciao, Claudio, buon viaggio! Arrivederci, ultimo, umile e docile signore del podio.