La Messa Glagolitica di Janáček all’Auditorio Nacional di Madrid

Madrid, Auditorio Nacional de Música, Temporada 2015-2016 “Malditos”
Orquesta y Coro Nacionales de España
Direttore Xian Zhang
Maestro del coro Miguel Ángel García Cañamero
Violino Ray Chen
Organo Daniel Oyarbazal
Soprano Susanne Bernhard
Mezzosoprano Charlotte Hellekant
Tenore Michael König
Baritono Derek Welton
Piotr Ilich Chaikovski : Marcia Slava, op. 31 – Concerto per violino e orchestra in re maggiore, op. 35
Leoš Janáček : Messa Glagolitica
Madrid, 23 aprile 2016

Composta durante un soggiorno balneare tra estate e autunno del 1926, soltanto due anni prima della morte del compositore, la Messa Glagolitica di Janáček è uno dei più grandi capolavori della musica sacra del secolo XX, purtroppo di ascolto abbastanza raro fuori dall’area slava di cui è in qualche modo il simbolo. In primo luogo, la struttura non è quella tipica della messa intonata da soli, coro e orchestra, perché la caratterizzano una fanfara iniziale e una conclusiva; prima del finale troneggia un postludio per organo solo; nel cuore dell’organismo si articolano cinque sezioni, che ripercorrono i momenti liturgici corrispondenti a Kyrie (Gospodi pomiluj) – Gloria (Slava) – Credo (Věruju) – Sanctus (Svet) – Agnus Dei (Agneče Božij) della tradizione latina. Il testo su cui Janáček lavorò era la trascrizione di un antico messale croato risalente al XIV secolo (ma copia di un originale assai più antico), scritto appunto in alfabeto glagolitico (in antico bulgaro glagolati significa ‘parlare, esprimersi’), che servì da fondamento al successivo alfabetico cirillico di Bulgaria. Questo messale era stato pubblicato tra 1919 e 1920 dal paleografo Josef Vajs, che aveva raccolto anche testimonianze di altri dialetti slavi antichi, poi riviste dallo slavista Miloš Weingart: tali studi costituirono la base del lavoro compositivo di Janáček. Il quale, a settantadue anni, non si era ancora stancato di sperimentare nuovi percorsi artistici, innestando insieme procedimento sinfonico, canto sacro, sonata per organo e ricerca etnomusicale. Ne risultò un affresco denso e grandioso, connotato certamente da nazionalismo e rivendicazioni politico-culturali (la Prima Repubblica Cecoslovacca era nata nel 1918, appena sei anni prima che Janáček attendesse alla composizione della messa), ma non per questo meno affascinante da un punto di vista strettamente musicale.
Per tutti questi motivi la proposta della Messa Glagolitica s’inserisce adeguatamente all’interno della stagione “maledetta” di Orquesta y Coro Nacionales de España, con una locandina decisamente internazionale; Xian Zhang, nativa della cinese Dandong (ma ben nota al pubblico dei concerti milanesi, in quanto Direttore Musicale dell’Orchestra Sinfonica di Milano sin dal 2009), stringe saldamente le redini del concerto, e fa suonare l’orchestra madrilena con piglio formidabile: perfette le trombe (che detengono il ruolo principale) con le percussioni e il resto dei fiati; ottimo come sempre il coro, preparato da Miguel Ángel García Cañamero. Il soprano bavarese Susanne Bernhard sfoggia un bel timbro, sebbene la voce non sia dotata di un ampio ventaglio cromatico. Il tenore Michael König, anch’egli tedesco, deve sforzarsi per proiettare la voce – abbastanza esile – in modo da sostenere le potenti sonorità di coro e orchestra; nel Credo è messo a dura prova da una tessitura molto acuta, in cui si disimpegna bene. Il basso-baritono australiano Derek Welton è corretto nel piccolo ruolo che gli compete; il mezzosoprano svedese Charlotte Hellekant rappresenta un nome molto conosciuto nella musica vocale contemporanea, ma nella Messa Glagolitica il suo registro è impegnato soltanto per pochi minuti, nell’ultimo brano vocale, insieme al resto del quartetto. All’organo siede Daniel Oyarzabal, nativo di Vitoria-Gasteiz, nei Paesi Baschi, che della composizione diventa protagonista con il concentrato postludio dopo i numeri vocali. Il pubblico di Madrid resta molto impressionato dall’esecuzione della Messa, soprattutto per il conglomerato di arcaismo e modernità che la caratterizza (e che è una delle carature stilistiche di tutto Janáček). Il momento più felice per l’intreccio delle tre voci importanti è il Sanctus, in cui risalta bene la capacità di scrittura polifonica dell’autore; quello più impressionante per l’orchestra è invece la fanfara finale, più simile alla conclusione di un’orgia barbarica che non di una sequenza liturgica.
L’intero concerto diretto da Xian Zhang è in realtà unificato dal denominatore slavo, visto che nella prima parte del programma (la più prevedibile) campeggiano due brani di Chaikovski tutti pervasi da stilemi e disegni riferibili a un’area geografica ben precisa. La Marcia Slava è una girandola di colori, di ritmi e di entusiasmo, molto pompier. Nel Concerto per violino e orchestra diventa protagonista il giovanissimo solista Ray Chen, nativo di Taiwan, allievo del Curtis Institute di Philadelphia e vincitore di prestigiosi concorsi mondiali; il pubblico s’innamora subito di lui, perché giovane, bello, elegante, semplice nei modi, empatico con gli spettatori, talentuoso, e soprattutto dotato di uno strumento eccezionale. Chen suona infatti lo Stradivari Joachim del 1715, proprietà della Nippon Music Foundation, già appartenuto al leggendario violinista ungherese (ancora il mondo slavo …) Joseph Joachim. Il suono di questo violino è veramente caldo e vibrante, e il solista se ne compiace con un uso molto studiato dei ritenendo e delle pause, sin dal I movimento (Allegro moderato). A volte un po’ scolastico nel marcare gli accenti, il solista è quasi aggressivo nell’esordio del finale (Allegro vivacissimo); in più le agilità risultano un poco approssimative, forse anche a causa del rapido tempo imposto dal direttore. Ovviamente, l’esito è un’ovazione che sollecita un bis fuori programma, e Chen accontenta subito con la scelta più convenzionale e al tempo stesso più appagante: il Preludio bachiano che sempre suscita gioia. In effetti, enunciato da quel violino, concorre in ogni sua nota a un piacere fisico che non tollera discussioni.