Martina Franca, 43° Festival della Valle d’Itria 2017: “Margherita d’Anjou”

Martina Franca, 43° Festival della Valle d’Itria 2017,  Palazzo Ducale
MARGHERITA D’ANJOU”
Melodramma semiserio in due atti su libretto di Felice Romani
Musica di Giacomo Meyerbeer
Margherita GIULIA DE BLASIS
Duca di Lavarenne ANTON ROSITSKIY
Isaura GAIA PETRONE
Riccardo duca di Gloucester BASTIAN THOMAS KOHL
Carlo Belmonte LAURENCE MEIKLE
Michele Gamautte MARCO FILIPPO ROMANO
Gertrude ELENA TERESCHENKO
Bellapunta LORENZO IZZO
Orner DIELLI HOXHA
Un uffiziale MASSIMILIANO GUERRIERI
Orchestra Internazionale d’Italia
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Corrado Casati 

Maestro al fortepiano Carmen Santoro
Regia Alessandro Talevi
Scene e costumi Madeleine Boyd
Lighting designer: Giuseppe Calabrò
Coreografie: Riccardo Olivier
Martina Franca, 29 luglio 2017
Dopo aver presentato due dei più noti grand-opéras di Meyerbeer (Robert le diable nel 2000 e Les Huguenots nel 2002) il Festival della Valle d’Itria nel 2006 aveva avviato un’operazione di riscoperta delle sue opere italiane giovanili con la prima ripresa moderna della Semiramide. La strada ha avuto prosecuzione con Margherita d’Anjou (Milano, Scala, autunno 1820) che nel 2005 a Lipsia fu eseguita solo in forma di concerto e che dunque conosce ora la prima messinscena in tempi moderni, secondo l’attenta ricostruzione offerta dal musicologo Paolo Rossini nella sua pregevole edizione critica.
Nel primo Ottocento la definizione di “opera semiseria” era giustificata dalla presenza di un solo personaggio grottesco, qui il factotum Michele Gamautte, che agiva all’interno di una vicenda sostanzialmente seria e che in questo caso era anche piuttosto cupa, incentrata com’era sulle lotte politiche durante la guerra delle Due Rose (giova ricordare che nel 1813 sempre Felice Romani per Mayr aveva scritto il libretto La rosa bianca e la rosa rossa, con uguale collocazione storica). Il giovane regista sudafricano Alessandro Talevi ha voluto declinare l’identità semiseria della Margherita d’Anjou implementando gli elementi comici e scegliendo di trasferire l’azione in un contesto – quello del London Fashion Week – dove essi potessero più facilmente interagire con le componenti serie. Margherita è diventata una stilista celebre, invaghita del cantante pop Duca di Lavarenne e minacciata dal top designer Carlo Belmonte, da lei in precedenza licenziato e ora al soldo del re dei tabloid Riccardo di Gloucester. Isaura, la moglie segreta del cantante pop, veniva introdotta en travesti come modello maschile in una sfilata dal suo amico Michele Gamautte, un estroso produttore di reality trash. Frequentatori di passerelle d’alta moda e comunità punk sostituivano il coro di inglesi e di montanari scozzesi pensati nel 1820 per andare incontro al nuovo gusto romantico che privilegiava comunità naif collocate in contesti montani, qui mutati in lussuosi centri benessere come quello di The Youth di Paolo Sorrentino. Basta questa sintesi per comprendere il peso della riscrittura registica che ha completamente reinterpretato il libretto di Felice Romani e che ha richiesto un supporto coreografico continuo (gli eccellenti ballerini della Fattoria Vittadini erano diretti da Riccardo Olivier). Se è vero che questa regia s’è mostrata fin da subito coraggiosa e accattivante, è anche vero che non sempre ha saputo coniugarsi alle ragioni della melodrammaturgia meyerbeeriana: l’eliminazione della ‘tinta’ militare del primo atto, ad esempio, ha privato di senso i tanti suoni di scena (corni dentro le quinte, bande sul palco) che conferivano alla partitura una spazialità musicale di segno nuovo; i movimenti intenzionalmente ridicoli e impacciati di Isaura erano talvolta eccentrici rispetto a quanto musicalmente stava accadendo in scena; allo stesso modo, i continui tic da rockstar del protagonista maschile lo hanno privato di quella delicata malinconia che ne determinava la cifra espressiva. L’impiego eccessivo di movimenti in rallentando, l’utilizzo statico delle luci (ben curate da Giuseppe Calabrò) e, a volte, una certa indeterminatezza prossemica non hanno agevolato l’uditorio nel seguire una storia già in origine non impeccabile sul piano dell’articolazione drammatica. Di contro si segnalano intuizioni memorabili, prima fra tutte quella che faceva sciorinare il lungo monologo di Lavarenne al cospetto di un’intervistatrice/psicanalista. Le scene e i costumi di Madeleine Boyd, vincolati all’impostazione registica, hanno giocato ad irridere certi eccessi della moda contemporanea (elementi sadomaso, tagli eccentrici, rivisitazioni delle gorgiere rinascimentali) e ad alludere all’ambientazione originale del 1820 con la presenza del disegno tartan. Michele Gamautte, pensato sul piano costumistico come un mix tra Joker e Renato Zero, è stato l’unico personaggio a differenziarsi rispetto a un contesto cromaticamente spento, ravvivato dai colori neon delle creste punk esibite dai seguaci di Carlo Belmonte. Ad imporsi sul piano scenico è stata una serie di alti pioppi che han fatto da sfondo per l’intera durata dell’opera. Più difficile da comprendere la presenza di una passerella (che ha ristretto lo spazio del pubblico in platea) sfruttata solo pochi secondi per l’entrata in scena di Lavarenne.
Protagonista canora nel 1820 fu il contralto Rosa Mariani, interprete di Isaura e assegnataria del rondò finale che spettava, secondo le convenienze teatrali, alla star dell’opera. Il titolo del melodramma non poté tuttavia essere cambiato perché il soggetto storico difficilmente lo avrebbe permesso, ma il pubblico milanese di allora ben sapeva a chi assegnare il primato. La parte più complessa del melodramma è infatti toccata alla bravissima Gaia Petrone, mezzosoprano di volume non grande ma estremamente raffinata, a suo agio nelle agilità, affrontate con coerenza stilistica e invidiabile precisione, morbidissima nell’emissione e perfetta nella dizione. Impeccabile anche la prova di Marco Filippo Romano cui spettava l’interpretazione non facile del basso buffo Michele Gamautte. Potenza vocale, ricchezza timbrica, straordinaria presenza scenica hanno permesso di ridare vita a una specie di altro Figaro che si è imposto nella memoria degli ascoltatori. Generoso nell’affrontare vertiginosi sovracuti (non sempre centrati) Anton Rositskiy ha cantato un’ardua parte di tenore robusto (all’epoca l’interprete fu il celebre Nicola Tacchinardi) di grande impegno anche sul piano attoriale. Buona la prova del soprano Giulia de Blasis, nella parte della protagonista eponima, non ancora pienamente matura nei passi di coloratura e nelle zone acute della sua voce ma di certo interessante per timbro nella sua zona centrale. Perfettibili, rispettivamente per pronuncia e per emissione, i due bassi Bastian Thomas Kohl e Laurence Meikle. Buone le parti di fianco come pure la performance del coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati, che dopo qualche imprecisione ritmica iniziale ha trovato il passo giusto per tener testa a pagine di grande impegno canoro. Squisita, come sempre, la direzione di Fabio Luisi alla guida dell’Orchestra internazionale d’Italia, che ha valorizzato le ricchezze dell’orchestrazione meyerbeeriana con sapiente equilibrio agogico e dinamico restituendone tutta la varietà coloristica (pregevolissimo l’assolo concertante del primo violino Pacalin Pavaci). Si replica il 2 e il 4 agosto. Foto P.Conserva