Venezia, Teatro La Fenice: “Die lustige witwe”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2017-2018
DIE LUSTIGE WITWE” (La vedova allegra)
Operetta in tre atti.  Libretto di Victor Léon e Leo Stein, dalla commedia L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac.
Musica di Franz Lehàr
Barone Mirko Zeta FRANZ HAWLATA
Valencienne ADRIANA FERFECKA
Conte Danilo Danilowitsch CHRISTOPH POHL
Hanna Glawary NADJA MCHANTAF
Camille de Rossillon KONSTANTIN LEE
Visconte Cascada SIMON SCHNORR
Raoul de St. Brioche MARCELLO NARDIS
Bogdanowitsch ROBERTO MAIETTA
Syloiane MARTINA BORTOLOTTI
Kromow WILLAM CORRÒ
Olga ZDISLAVA BOČKOVA’
Pritschitsch NICOLA ZICCARDI
Praskowia DANIELA BAŇASOVÁ
Njegus KARL-HEINZ MACEK
Lolo ALESSANDRA CALAMASSI
Dodo MARIATERESA NOTARANGELO
Jou-Jou ROSSELLA CONTU
Frou-Frou ALESSANDRA GREGORI
Clo-Clo CHIARA LUCIA GRAZIANO
Margot KRIZIA PICCI
Una signora FRANCESCA POROPAT
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Stefano Montanari
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto
Scene
Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Coreografie Chiara Vecchi
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Teatro dell’Opera di Roma  Venezia, 2 febbraio 2018
Tra i generi cosiddetti “minori” del teatro musicale un posto di particolare rilievo va assegnato all’operetta, una forma di spettacolo, che conobbe una vasta popolarità nel corso dell’Ottocento e dei primi decenni dell’Ottocento, caratterizzata dall’alternanza di numeri cantati e recitati, sul modello dell’opéra-comique francese e del Singspiel di area austro-tedesca. Ma – come nota anche Quirino Principe, con dovizia di argomentazioni, nel suo saggio all’interno del programma di sala – la classificazione generalmente accettata, in base alla quale esisterebbero generi musicali “maggiori” e “minori, non è affatto giustificata, per la semplice ragione che, in base a tale criterio, dovremmo assegnare tout-court un basso grado si dignità artistica a tutto quel corpus di composizioni, che siamo abituati ad etichettare con il termine poco lusinghiero di “operette”, a distinguerle con accezione diminutiva dal più nobile teatro d’opera. Si tratta di generalizzazioni ,che lasciano il tempo che trovano soprattutto nel caso di capolavori, quali Die Fledermaus o Die lustige Witwe, nondimeno considerati, in tempi più o meno recenti, con sufficienza da certi critici e musicisti, fuorviati – a nostro modesto avviso – da una buona dose di intellettualismo, per non dire di snobismo, se è vero che Wagner non nascondeva il proprio entusiasmo per la musica, non solo per la scena, di Johann Strauss figlio, mentre risulta analogamente che Mahler non si sottraesse al piacere suscitato in lui dai due citati capolavori. Ben vengano, dunque, iniziative come quella del Teatro La Fenice, finalizzate a riproporre, nella prestigiosa cornice di un grande tempio della musica, spettacoli attinti ad un repertorio lirico-teatrale troppo frettolosamente considerato “ancillare” rispetto a quello “colto”, nella sacrosanta convinzione che l’unico vero discrimine, nell’ambito dell’Arte dei Suoni, si determina considerando il diverso livello qualitativo di una composizione rispetto ad un’altra, a prescindere da aprioristiche classificazioni. E Die lustige Witwe è certamente un esempio di musica con la M maiuscola. Il capolavoro di Franz (o, in ungherese, Ferenc) Lehár, infatti, rivela: un’orchestrazione estremamente raffinata – a ricreare, tra l’altro, certe languide atmosfere da “Finis Austriae”, guardando anche alla tradizione musicale slava –, una vena melodica di indubbio fascino, una serie di spumeggianti episodi danzati, che alternano il valzer alla mazurca. L’operetta andò in scena al Theater an der Wien il 30 dicembre 1905, sotto la direzione dell’autore, ottenendo un travolgente successo. Il soggetto è tratto da L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac, suprema autorità del teatro francese del secondo Ottocento, autore di fortunati vaudeville e, insieme a Ludovic Halévy, di numerosi libretti operettistici per Offenbach, oltre che di quello dì Carmen per Bizet. Ad adattare la commedia per la musica di Lehàr fu un’altra collaudata coppia di poeti, Vietar Léon e Leo Stein, che però si basarono sulla versione tedesca della pièce, firmata da Alexander Bergen (pseudonimo di Marie Gordon), dove all’ambientazione originale (un non meglio precisato principato tedesco), si sostituisce l’immaginario stato di Pontevedro (denominazione, dettata dalla prudenza diplomatica, sotto cui si cela senza troppi misteri il Montenegro). Ma veniamo all’allestimento feniceo, su cui aleggia – stimolante per alcuni, inquietante per altri – lo spirito creatore di Damiano Michieletto, che ha costruito una drammaturgia parallela a quella indicata dal libretto, spostando l’azione in altri tempi ed altri luoghi. Siamo verso gli anni Sessanta. Il primo atto, anziché svolgersi presso l’ambasciata dello stato di Pontevedro a Parigi, ha come scenario la sede parigina della Banca nazionale pontevedrina, dove si festeggia l’anniversario della sua fondazione. Nel secondo atto il palazzo di Hanna Glavary cede il posto ad una più prosaica balera con tanto di complesso rock e una piccola folla danzante impegnata a travestire valzer e mazurche di movenze “moderne”. Nel terzo atto non c’è traccia dell’eccitante cornice del Maxim’s, cui si sostituisce il ben più squallido ufficio di Danilo (che Michieletto trasforma in un funzionario della Pontevedro Bank), mentre l’apparizione delle allegre donnine, tanto ammirate dal conte, frequentatore del licenzioso locale parigino, non sono che un sogno alimentato dai fumi dell’alcol, di cui il nobiluomo è ancora preda. Movente dell’azione – accanto all’amore – è il denaro, la cospicua eredità della vedova, che potrebbe rimpinguare le languenti casse della banca, di cui sopra, ormai sull’orlo del fallimento: donde il piano architettato dal barone Zeta, in veste di direttore, per costringere Hanna a depositare il suo denaro nell’istituto di credito, dopo aver sposato il conte Danilo. Una certa analogia con le ben note vicende dell’odierna “bancopoli” pare abbastanza evidente. Tra i personaggi rivisitati da Michieletto si segnala quello di Njegus, quasi sempre presente in palcoscenico, giocando con il ventaglio di Valencienne recante la scritta “Ti amo”, che passando di mano in mano, causa di scompigli, confusioni, flirt, tradimenti. Njegus è un personaggio reale – segretario e “portaborse” della banca –, ma svolge anche una funzione metateatrale, nel senso che introduce le varie scene, spargendo una manciata di polvere luminosa, ed è inoltre il nume tutelare degli intrecci amorosi. Così concepito, lo spettacolo è risultato divertente, almeno per una parte del pubblico, ma – come abbiamo già notato – si tratta di una drammaturgia parallela rispetto a quella indicata dal libretto e soprattutto stridente con i caratteri della musica, indubbiamente espressiva di un contesto, si può dire, opposto a quello richiamato dal regista: l’allegria, la concezione dell’amore dei mitici, progressivi anni Sessanta non possono corrispondere a quella spensieratezza incosciente, con cui la società europea, sull’orlo del baratro, esorcizzava la paura tra Otto e Novecento, come ben si coglie, ad esempio, in Die Kapuzinergruft (La Cripta dei Cappuccini) di Joseph Roth. Detto questo, lo spettacolo ha una sua efficacia, anche grazie alle luci di Alessandro Carletti, funzionali alla situazione scenica, che nei momenti di maggiore intimità assumono una significativa tonalità violacea; ai graziosi costumi di Carla Teti dai colori pastello, che dominano in generale anche sulle realistiche scene di Paolo Fantin; agli efficaci movimenti coreografici di Chiara Vecchi. Quanto all’esecuzione musicale, il maestro Stefano Montanari ha in larga parte condiviso l’impostazione registica di Michieletto, imprimendo alla sua lettura un piglio diffusamente energico, senza peraltro trascurare gli episodi lirici, comunque offerti con sorvegliata partecipazione emotiva, evitando di indulgere in estenuazioni decadenti. Ottima la prestazione dell’orchestra, che ha saputo trovare sempre i giusti impasti di colore. Altrettanto valido il cast. Nadja Mchantaf si è imposta sia per la presenza scenica – ha ballato e si è mossa con eleganza, affrontando in scioltezza anche qualche passaggio acrobatico – sia, ovviamente, per la sua vocalità pienamente adeguata al ruolo della protagonista, alternando verve e lirismo; suggestiva la sua interpretazione del Vilja-Lied. Analogamente a suo agio sulla scena è apparso Christoph Pohl, che ha delineato un Danilo convincente anche dal punto di vista vocale, grazie al timbro brunito e all’adeguata sensibilità interpretativa. Si è destreggiata validamente anche la coppia Valencienne-Camille de Rossillon: Adriana Ferfecka si è fatta apprezzare per la calda espressività, cui si accompagnava un discreto peso dal punto di vista vocale; Konstantin Lee è risultato convincente, nonostante una certa affettazione e una voce piuttosto piccola, che si assottigliava negli acuti. Irresistibile la comicità di Franz Hawlata, nei panni del barone Zeta, per quanto penalizzato da una vocalità talora opaca, soprattutto all’inizio del primo atto. Tra gli altri interpreti – tutti decisamente positivi nelle loro prestazioni – segnaliamo, in particolare, Karl-Heinz Macek nei panni di un Njegus spigliato ed elegante. Inappuntabile il coro. Successo pieno per tutti. Foto Michele Crosera