Milano, Teatro alla Scala: “Simon Boccanegra” (cast alternativo)

Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
SIMON BOCCANEGRA” 
Melodramma in un prologo e tre atti su libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito

Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra LUCA SALSI
Jacopo Fiesco AIN ANGER
Paolo Albiani ROBERTO DE CANDIA
Pietro ANDREA PELLEGRINI
Amelia (Maria) IRINA LUNGU
Gabriele Adorno MATTEO LIPPI
Capitano dei Balestrieri HAIYANG GUO
Ancella di Amelia LAURA LOLITA PEREŠIVANA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore 
Lorenzo Viotti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Daniele Abbado
Scene 
Daniele Abbado e Angelo Linzalata
Costumi 
Nanà Cecchi
Luci 
Alessandro Carletti
Movimento coreografici 
Simona Bucci
Nuovo allestimento

Milano, 24 febbraio 2024
Sebbene abbiamo accuratamente già recensito questa produzione, cogliamo al balzo la possibilità di un cast alternativo per rivedere e scrivere un secondo pezzo sul “Simon Boccanegra “ scaligero. Abbiamo assistito all’ultima recita, che, tuttavia, trattandosi di un sabato e di altri due protagonisti, ha richiamato molti colleghi della stampa e molti appassionati, riempiendo quasi del tutto il teatro. Le ragioni di questo successo in extremis debbono essere ricercate di certo nelle entusiaste recensioni che abbastanza uniformemente sono apparse in rete e sui giornali: questo “Boccanegra” è una produzione che funziona, a volte forse un po’ generica, ma con dei chiarissimi picchi sul piano musicale, a partire da Lorenzo Viotti sul podio – bacchetta giovane, ma ormai espertissima, che affronta Verdi con senso della misura, tutta tesa alla resa coloristica, alla coesione con la scena e alla morbida omogeneità dei suoni (forse in alcuni punti anche eccessivo languore, ma meglio così che col piglio del capobanda). Altro pregevole interprete è senz’altro l’estone Ain Anger, un Fiesco perfettamente fraseggiato, che si incarna nel suono limpido naturale del basso profondo capace al contempo di piacevolissima aderenza alle linee di canto. Le due new entry nel cast pure si distinguono per la bellezza delle linee vocali: Irina Lungu (chiamata all’ultimo per sostituire l’indisposta Anita Hartig) è una scelta forse non del tutto rassicurante, per il ruolo di Amelia, ma a nostro avviso comunque ben riuscita; la più italiana tra i soprani russi sfodera fin dal primo atto buona tecnica (filati e mezzevoci di prammatica), ma è senz’altro nel fascinoso fraseggio che si spende di più, talvolta a scapito dei centri lievemente sfocati. Matteo Lippi è stato un Adorno godibilissimo sul piano musicale: il tenore sembra aver superato certe emissioni nasali che altre volte lo avevano contraddistinto, proponendo un suono ben proiettato di grande naturalezza, dai colori vivaci e il nobile portamento; avrebbe forse giovato di più alla prova complessiva una minore staticità scenica, ma dato che anche la Lungu si è dimostrata un po’ rigida, sospettiamo che sia solo una questione di poche prove di regia con i nuovi arrivati; in ogni caso, la sua “Sento avvampar nell’anima” è cantata con ineccepibile musicalità e raccogliendo consensi a scena aperta. Roberto De Candia, professionista di riconosciuto talento, dà una resa preziosa dell’antagonista Paolo Albiani, lasciandone emergere aspetti inquietanti e sorprendenti, grazie al mezzo vocale potentissimo gestito con sapiente equilibrio. Luca Salsi, invece, nel ruolo del protagonista, ci è parso oltremodo stanco – e comprensibilmente, dopo tutte le repliche: beninteso, il talento e l’intelligenza musicali ci sono, con il colore bruno forgiato su eleganti portamenti; tuttavia i momenti più godibili della sua performance sono i duetti e i concertati – quello con Amelia del Primo Atto è senz’altro il punto più alto per entrambi gli interpreti coinvolti; nei momenti di sferza o di maggior eroismo, invece, è sembrato mancare di mordente. Funzionali alle parti le interpretazioni dei ruoli di lato (il Pietro di Andrea Pellegrini, l’ancella di Laura Lolita Perešivana, il capitano dei balestrieri di Haiyang Guo); all’altezza delle aspettative la prova del Coro, diretto dal Maestro Alberto Malazzi, soprattutto nel Primo Atto. L’impianto registico di Daniele Abbado (coadiuvato da Angelo Linzalata per le scene), come già è stato fatto notare, è di una linearità eccessivamente parca: siamo in una Genova purgatoriale, dominata da strutture monolitiche grigie (un po’ la cifra stilistica di Abbado), da lumicini colorati e suggestioni di mare, attrezzeria geometrica e lignea d’ispirazione nordeuropea. Altrettanto anonimi i costumi di Nanà Cecchi (con anche un plateale errore: il serto dogale, in mancanza di una corona, diventa il manto di Boccanegra), e piuttosto evanescente anche il lavoro attoriale, che non punta a eviscerare i personaggi dai loro ruoli stereotipati, né ad indagare davvero in scena il gioco delle relazioni e del potere – in pochissimi si toccano, ad esempio. A salvarci dal gelo che spira dal boccascena, provvidenziali allora arrivano le luci di Alesandro Carletti a dare effettiva tridimensionalità e profondità espressiva, a evocare un altrove magnifico e affascinante – pensiamo ad esempio all’apertura del Terzo Atto –, insomma a darci un pochino di quella magia, quel sogno, cui l’opera dovrebbe sempre provvedere. Foto Brescia & Amisano