Gaetano Donizetti (1797-1848): “Lucia di Lammermoor”

Dramma tragico in due parti di Salvatore Cammarano. Ludovic Tézier (Enrico), Diana Damrau (Lucia), Joseph Calleja (Edgardo), Nicolas Testé (Raimondo), David Lee (Arturo), Marie Mclaughlin (Alisa), Andrew Lepri Meyer (Normanno).  Münchener Opernchor und Orchestra. Jesús López-Cobos (direttore).  Registrazione:  Monaco, Philharmonie im Gasteig, 1, 4, 7, 10  luglio 2013. 2 CD Erato 0825646219018
Quel che salta immediatamente agli occhi in questa incisione, sin dalle prime battute del preludio, è il nitore, la precisione, il dosaggio timbrico dell’orchestra, la Münchener Orchester, che procede compattissima senza sbavature e con alcuni interventi assolo di primissima classe, come quello dell’arpa all’inizio della seconda scena del primo atto, o del clarinetto che sottolinea l’appressarsi di Lucia nel duetto del secondo atto con il fratello (e che sostituisce lo spurio oboe della partitura stampata da Ricordi a fine ‘800).  Il direttore d’orchestra, Jesús López-Cobos, curatore di una delle sempre più numerose edizioni critiche di Lucia di Lammermoor, pur basandosi per questa incisione sulla propria revisione critica, non la segue fedelmente come avvenne per la registrazione con Montserrat Caballé del 1977; curiosamente, se nell’edizione discografica appena citata optava per l’uso del flauto nella scena della pazzia, qui per fortuna ricorre alla alla ben più atmosferica e “sovrannaturale” glasharmonika (è questo in tedesco il nome corretto dello strumento). Al contrario pare che in questo caso la scelta sia avvenuta secondo le esigenze della protagonista, Diana Damrau, e se cavatina e cabaletta sono eseguite rispettivamente in mi bemolle e la bemolle (quindi un semitono più acute della versione tradizionale), il duetto con Enrico del secondo atto rimane in sol (anzichè in la) e la scena della pazzia conserva la tonalità più nota di mi bemolle (quindi un tono più grave che nel manoscritto), probabilmente perché con le tonalità più acute la Damrau avrebbe dovuto concludere sia la cadenza (quella della Marchesi senza tagli) sia “Spargi d’amaro pianto” con un proibitivo fa naturale.  López-Cobos dirige quest’opera da quasi mezzo secolo e la conosce come ben pochi altri; ogni dettaglio è curatissimo, niente è affidato al caso, e la scelta dei tempi e delle dinamiche (a parte i timpani troppo violenti) è così in linea con i valori drammatico-musicali dello spartito da apparire ineluttabile.  Inappuntabile anche il coro, il Münchener Opernchor.  
Infausta la scelta dei comprimari; sia David Lee (Arturo) che Andrew Lepri Meyer (Normanno) sono tenorini esangui che sembrano non aver mai preso in mano un manuale di dizione italiana, mentre Marie Mclaughlin, un tempo apprezzabilissimo soprano, passa alla storia come forse la peggior Alisa del disco, danneggiando con i suoi maldestri la naturali la stretta del concertato.  Scarsa dimestichezza con la lingua italiana rivela anche il basso-baritono francese Nicolas Testé (Raimondo), forse meglio noto come Herr Damrau, che oltretutto evidenzia un timbro piuttosto anonimo e varie magagne tecniche.   Ludovic Tézier (Enrico) ha una voce baritonale dalle piacevoli risonanze, soprattutto nel registro centrale, ed anche ben emessa, ma non tenta di creare un personaggio che non sia quello di generico “cattivo” con accenti torvi buoni a tutti gli usi.  Il timbro di Joseph Calleja è di quelli che di rado lasciano indifferenti; il suo vibrato stretto, diciamo pure caprino,che rievoca l’emissione di tantissimi cantanti del periodo antebellico, non incontra oggigiorno grandi favori; a me non dispiace, soprattutto perché è sostenuto da una tecnica di tutto rispetto.  Quello che colpisce negativamente è la mancanza di immaginazione interpretativa; ben scarsa è la ricerca di colori e di accenti.  Ho sempre scagliato crociate contro un certo modo verista di interpretare quest’eroe romantico come pochi altri, ma qui ci troviamo di fronte a un Edgardo davvero troppo inamidato.  Non è da escludere che possa essere una non incomprensibile reazione di fronte all’approccio completamente antitetico della sua Lucia.  La Damrau, convinta, come da lei medesima dichiarato, che l’eroina donizettiana sia un classico caso da manuale di bipolarismo, dà infatti vita una protagonista affetta da gravi e repentine alterazioni dell’umore, sin dall’entrata in scena in cui si produce in attimi di frenetica felicità alternati a episodi di cupo terrore, approccio continuato per tutto il corso dell’opera e naturalmente esploso all’ennesima potenza nella scena della pazzia.  Consideriamo anche l’altra convinzione del soprano tedesco che Lucia sia il ruolo più verista del belcanto, e capiremo quanta esagitazione, quanti singulti e respiri affannosi costellino la sua interpretazione; il tutto alla fine risulta forse eccessivo, ma riesce a tenere desta l’attenzione, come ogni interpretazione che, riuscita o no, tenti nuove strade.  Vocalmente ci troviamo di fronte a una cantante dal timbro già arido, prosciugato, con sovracuti quasi sempre schiacciati e con qualche fissità di troppo; l’agilità non è immacolata, e anzi bastano delle scale cromatiche di moderata difficoltà per trovarla in affanno e farle emettere dei glissati.  Nonostante abbia alcuni indubbi meriti e spunti di interesse, è altamente improbabile che questa nuova Lucia possa collocarsi al vertice di quelle pochissime incisioni di riferimento del capolavoro donizettiano.