Semyon Bychkov dirige l’VIII sinfonia di Bruckner a Torino

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2014-2015
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Semyon Bychkov
Anton Bruckner : Sinfonia n. 8 in do minore (versione del 1890; revisione di Leopold Nowak)
Torino, 4 dicembre 2014

Dopo la sferzata iniziale dei violoncelli, il suono si fa omogeneo e potente; e tale perdura fino alla fine. Così Semyon Bychkov, tornato alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI a Torino, affronta una delle sfide più ardue sia per una compagine strumentale sia per il pubblico italiani, l’VIII sinfonia di Anton Bruckner: smisurata, complessa, enigmatica, ma al tempo stesso rassicurante, in quanto articolata nei quattro tempi canonici, all’interno dei quali i temi sono presentati e si sviluppano, intricandosi sempre più tra di loro. Non è rivoluzionaria la struttura delle sinfonie bruckneriane; lo è invece la costruzione armonica, a partire dalla scelta di motivi e figurazioni non necessariamente belli, per nulla melodici, che si intrecciano in una sintassi quasi ai limiti del sistema tonale. Di conseguenza, un direttore d’orchestra deve decidere quali aspetti prediligere (il volume sonoro, la contrapposizione interna dei ritmi, i colori dei singoli interventi strumentali) o addirittura quali problemi interpretativi districare; ma, di fronte alle difficoltà che Bruckner pone, sono pochi i direttori che oggi si possano permettere una vera e originale interpretazione, soprattutto dopo i modelli antitetici di Celibidache e di Abbado, di Haitink e di Tate. Bychkov, per esempio, ancor più del suono, si preoccupa di individuare subito un tempo (Allegro moderato) assolutamente identico nelle varie sezioni del I movimento. Se tale scelta garantisce al discorso sinfonico e alle sue articolazioni interne un’apprezzabile fluidità, rischia però di uniformare e appiattire, come se la qualità emotiva e comunicativa fosse indifferenziata. È il rischio della “metronomicità”, applicabile a un tempo di sinfonia in generale, ma percepibile in particolare con Bruckner.
Lo Scherzo (Allegro moderato) ha un felice andamento danzante: le lunghissime arcate che lo definiscono risultano saldate insieme in modo convincente (e coerente rispetto a quella fluidità ritmica che caratterizzava già l’avvio). L’analisi direttoriale insiste su apparenti punti di sutura affidati ai fiati, valorizzati invece nella loro espressionistica, anche scabra, incisività. Bychkov concepisce il rapporto tra i due corpi, identici e simmetrici, dello Scherzo e il breve Trio incastonato al suo interno non come affettivo, bensì dialettico, drammatico: l’ingresso delle arpe nell’Adagio del Trio non è dunque quel momento di celestiale contemplazione che solitamente si ascolta, ma una battuta rapida, concisa, a contraltare dello Scherzo stesso. E soltanto nella ripresa di quest’ultimo l’ascoltatore percepisce quanto il direttore ricorra ad anticipazioni di periodi e di frasi, quasi accavallati gli uni sugli altri, sempre al fine di raccordare e legare le sezioni, e fluidificare il tempo della musica (che diventa così un tempo a sé stante – o forse il tempo in assoluto – del tutto slegato dal tempo misurato secondo modalità ordinarie).
Lento, solenne, ma senza strascicare, sono le tre indicazioni agogiche ed espressive che Bruckner ha segnato per lo smisurato Adagio. L’attacco realizzato da Bychkov è molto pulito e assertivo; e questa volta, quando entrano tutte e tre, le arpe risuonano di magia e di incanto. Parrebbe quasi che il direttore si fosse concentrato in particolare sull’Adagio, poiché tutto è più pacato, il suono decantato meglio perché risalti in purezza. Dopo la culminazione celebrata dal duplice colpo di piatti il movimento si ripiega su sé stesso: ritornano le arpe, ora dolenti; ritornano i corni, ma la loro fanfara è quasi un’eco, come spezzata in frammenti dagli inserti degli archi. E nella clausola del blocco più intenso, resta ancora una volta intatto il mistero di Bruckner; ancora una volta l’ascoltatore, smarrito nel mare di musica, interroga il direttore, per sapere almeno se l’VIII sinfonia debba essere declinata nel segno della speranza o della disfatta. Difficile applicare il trionfalistico commento di Hugo Wolf («una completa vittoria della luce contro l’oscurità») al messaggio musicale più che all’esecuzione diretta da Hans Richter, la prima assoluta, il 18 dicembre 1892. Anche perché all’epoca si ascoltò una versione sconciata e rimaneggiata, molto più breve rispetto a quel che il compositore aveva rielaborato nel 1890. Che cosa risponde Bychkov al febbrile interrogativo dell’ascoltatore? Per ora non squarcia il mistero, ma ne contempla il velo con una lettura autenticamente polifonica della partitura, prima di aggredire l’ultimo movimento.
Nervoso, iracondo, a scatti, è l’attacco del Finale (Solenne, non presto). Ora gli interventi di trombe e tromboni diventano inquietanti: non si comprende se il loro squillo preluda a un trionfo o a un giudizio universale. Soltanto a partire dagli agili arabeschi del flauto la sinfonia assume una connotazione più rassicurante, nel senso che le enunciazioni si fanno luminose, si distendono nel ritmo delle clausole, le asserzioni dei corni si completano con la dolcezza espressiva dei legni. Di apoteosi si può parlare soltanto nell’ultima sezione, più per adesione stilistica che per gratuita ricerca della grandezza: il modello è wagneriano, e in particolare si riconosce una struttura di marcia simile a quella dell’ingresso degli dei nel Walhall, dal Rheingold. Dopo alcuni secondi di frastornante silenzio, il pubblico di Torino erompe in un applauso granitico, che si protrae per molte chiamate alla ribalta, mentre il direttore fa alzare, a gruppi o individualmente, i professori dell’orchestra.
L’OSN RAI risponde bene alle richieste del direttore, considerato soprattutto che nelle settimane scorse è stata impegnata in una tournée internazionale, e poi in un concerto in sede, i cui programmi erano lontanissimi dal sinfonismo bruckneriano; il gruppo degli archi costituisce voce di commovente trasparenza ogni qual volta emerga dal tessuto sonoro (per esempio nei momenti di raccordo del Trio); i legni effondono una mestizia trattenuta; gli ottoni – la compagine sottoposta allo sforzo maggiore – dà buona prova di squillo, tenuta, e soprattutto di capacità tecnica nell’alleggerire il suono. Ai primi corni dell’orchestra, Corrado Saglietti ed Ettore Bongiovanni, competono le prove più difficili, in cui si disimpegnano quasi sempre molto bene. E il flauto di Marco Jorino regala forse il più bel momento di colore, nella ripresa dello Scherzo, allorché sovrasta per un attimo sublime tutta quanta l’orchestra. Nel IV movimento diventa invece determinante il ruolo del timpano, con Claudio Romano, veramente impeccabile nel suo ieratico carisma. Grazie alla (ormai preclara) duttilità dell’OSN RAI, Bychkov riesce a imprimere all’opera sin dall’esordio un suono corrusco, per illuminarlo progressivamente nel corso del Finale. Nel complesso la lettura di Bychkov si può definire molto tradizionale, ma nell’accezione migliore della storia delle esecuzioni bruckneriane; il direttore rispetta infatti l’enigma monumentale dell’VIII, senza esasperarne né la componente trionfale né quella elegiaca. Quello di Bychkov non è un Bruckner vittorioso (il «condottiero romano» in trionfo che aveva intravisto l’allievo ammirato Wolf) e neppure disilluso; è piuttosto l’uomo che al termine di un cammino faticosissimo e doloroso (i primi tre movimenti), penetra finalmente il mistero dell’esistenza e della fede. Al traguardo si può giungere soltanto grazie ai mezzi del linguaggio musicale esplorato in tutte le possibilità di aggregazione e disaggregazione armonica. Quando tutto, nella clausola estrema, si ricompone definitivamente, il compositore – sembra suggerire Bychkov – non si esprime più secondo le strutture linguistiche dell’uomo; sulla partitura che collassa verso l’accordo conclusivo Bruckner riesce finalmente a squadernare le regole della grammatica di Dio.

Foto OSN RAI