Napoli, Teatro di San Carlo: “Cavalleria rusticana”

Interpreti Santuzza, Violeta Urmana (6, 9 e 13 luglio) / Veronica Simeoni (11 e 14 luglio) Turiddu, Marcelo Álvarez (6, 9 e 13 luglio) / Roberto Aronica (11 e 14 luglio) Mamma Lucia, Elena Zilio Alfio, George Gagnidze Lola, Leyla Martinucci Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo Produzione del Teatro di San Carlo Premio Abbiati 2012 per le scene di Sergio Tramonti SERIE ARANCIO sabato 6 luglio 2019, ore 19.00 - Turno A martedì 9 luglio 2019, ore 20.00 - Turno C/D giovedì 11 luglio 2019, ore 18.00 - Turno B sabato 13 luglio 2019, ore 19.00 – Fuori Abbonamento domenica 14 luglio 2019, ore 17.00 - Turno F Spettacolo in Italiano con sovratitoli in Italiano e in Inglese

Napoli, San Carlo Opera Festival 2019
CAVALLERIA RUSTICANA”
Opera in un unico atto su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga.
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza VERONICA SIMEONI
Turiddu ROBERTO ARONICA
Mamma Lucia ELENA ZILIO
Alfio GEORGE GAGNIDZE
Lola LEYLA MARTINUCCI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Pippo Delbono
Scene Sergio Tramonti
Costumi Giusi Giustino
Luci Alessandro Carletti
Napoli, 11 luglio 2019
Si dice che l’apparenza sia ingannatrice. Nel caso di questa Cavalleria napoletana, l’apparenza è, e ciò che c’appare altro non è che il contenuto non-senso dell’impianto scenico, con regia curata da Pippo Delbono, scene progettate da Sergio Tramonti e luci di Alessandro Carletti. Entro un’immagine sfigurata d’una comunità non più determinata da realistiche connotazioni antropologiche (la processione pasquale, per esempio), il regista s’immagina d’innalzare la comunità popolare e rurale ad universalizzata e oggettivata vicenda umana, tale perché precostituita. Anche l’opera, pertanto, perde la sua specificità in nome d’una sua falsa eternità: non-creata, dunque, sempre esistita. L’uomo s’omologa, divenendo fiacco burattino, domestico spauracchio, corpo morto che blatera, meccanica imitazione di sé. Si compie, pertanto, una insanabile frattura tra parola, e ciò che essa esprime, ed elementi mimici. La parola scenica, pertanto, regredisce  a chiacchiera d’avanguardia. Entro la consueta scatola teatrale, dalla fosca nuance rossastra, toccata da spiazzanti ed accecanti luci, l’opera c’appare come universale, occultando la sua sicula particolarità. Diviene, dunque, tutto e niente. Il raggiungimento e l’appropriazione del niente, che mescolati ad una po’ ingombrante  autoreferenzialità, consentono a Delbono di portare l’opera all’occhiello come un ninnolo da esibire. Il tono di amarezza, pronto per essere impiegato nella lettura di ricordi infantili, con l’inutile  onnipresenza sul palcoscenico, ne sono la più viva testimonianza. Investire poi la confezione dell’evento teatrale d’un oscuro contenuto, che altro non è che la confezione stessa, è il passaggio  successivo. Fortunatamente, un buon contraltare all’auto-annientamento della messa in scena, ci arriva la concertazione salvifica di Juraj Valčuha. Egli pone  consapevole cura alla dimensione coloristica d’un’arte della strumentazione che oscilla, deliberatamente e senza remore, tra wagnerismo e sinfonismo. A suo agio con la densità della scrittura orchestrale, realmente ne scopre la luminosità. Un altro impianto teatrale avrebbe consentito la completa attuazione alla partecipazione creativa del colore all’evento teatrale. Esito complessivamente positivo per i cantanti, avvolti in abiti prevalentemente tradizionali, cupi e dalle linee severe, ideati da Giusi Giustino. Il mezzosoprano Veronica Simeoni, nonostante la sua sagace padronanza d’un ruolo teatralmente tanto impegnativo, scava la sua Santuzza con una voce che non ci appare al meglio in particolare nel registro acuto. Difficoltà attenuate  da un buon uso del declamato, una notevole tenuta nel grave e con una  interpretazione teatralmente di forte presenza.Il tenore Roberto Aronica, contravvenendo alla delboniana imposizione d’una asettica non-azione, presta al suo Turiddu un saldo, seppur consueto, temperamento teatrale; un fraseggio tanto vario quanto adeguatamente asciutto, mai sopra le righe, poiché sostenuto da uno strumento vocale  generoso,  da una costante messa a fuoco del suono, solido e compatto, pervaso anche da sfumature malinconiche. Il baritono George Gagnidze (Alfio) mostra tutto il glaciale distacco essenziali per la parte, teatralmente risolta con voce tonante, corposa, robusta, scura, dotata di gravi notevoli e forti accenti.Commuove  Elena Zilio che, con voce scura e soffocata nel grave da un lacerante dolore, presta a Mamma Lucia una struggente interpretazione. Parimenti bravo anche l’altro mezzosoprano, Leyla Martinucci (Lola) che, con un canto centrato e trasparente, offre al ruolo l’opportuno carattere di frivolezza e leggerezza. Ottimo risulta anche l’apporto del coro, preparato da Gea Garatti Ansini, vocalmente colto ed efficace. In conclusione, un pubblico pressoché d’occasione ha accolto senza eccessivo entusiasmo questa Cavalleria, ennesima vittima d’un regista, solo fautore d’una rivoluzione regressiva e spaventosamente paralizzante.