Torino, Teatro Regio: “La juive”

Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2023/24
“LA JUIVE”
Grand-opéra in cinque atti su libretto di Eugene Scribe
Musica di Jacques Fromental Halévy
Rachel MARIANGELA SICILIA
Éléazar GREGORY KUNDE
Eudoxie MARTINA RUSSOMANNO
Léopold IOAN HOTEA
Brogni RICCARDO ZANELLATO
Ruggero GORDON BINTNER
Albert DANIELE TERENZI
Un araldo ROCCO LIA
Un ufficiale dell’imperatore ANDREA ANTOGNETTI
Un uomo del popolo ALESSANDRO AGOSTINACCHIO
Un altro uomo del popolo ANDREA GOGLIO
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia, scene e costumi Stefano Poda
Torino, 1 ottobre 2023
La stagione della rinascita dopo lunghi anni di avversità, questo è il cartellone 2023/24 per il Teatro Regio tornato anche alla classica apertura autunnale. Per aprire questa stagione così importante si è deciso di fare le cose in grande presentando una produzione coraggiosa e rischiosa ma di grande interesse e il rischio si è trasformato in autentico trionfo. Assente a Torino dal 1885 “La juive” capolavoro di Halevy e maggior titolo del gran-opéra al fianco dei lavori di Meeyerber è stata riproposta con la massima cura.
L’opera alla prova del palcoscenico ne esce pienamente vincitrice. Certo il livello musicale non è sempre costante e qualche momento di routine nelle quattro ore di musica si percepisce ma nel complesso la qualità della scrittura di Halevy è molto alta con numerose pagine semplicemente straordinarie. Il libretto di Scribe – autentico Dumas operistico – è una di quelle implacabili macchine narrative di cui solo lui era capace e in cui anche le inevitabili lungaggini del genere non disturbano ma contribuiscono a definirne il clima complessivo.
Soprattutto l’opera appare seminale nei confronti dei successivi decenni di evoluzione del teatro musicale europeo. La ricchezza della scrittura orchestrale e la capacità di fondere i singoli brani in costruzioni più ampie e organiche – non a caso tra i più convinti ammiratori di quest’opera ci saranno Wagner e Mahler – la capacità di scolpire personalità sfaccettate e complesse, di un’umanità più autentica in cui i confini tra bene e male, tra bontà e perfidia si stemperano e si confondono; la capacità di trovare soluzioni teatralmente folgoranti in cui già vedono in filigrana tanti momenti del teatro a venire, Verdi in primis e non solo per il finale così simile – anche se qui più sofferto e profondo – a quello de “Il trovatore” ma anche per il duetto tra Éléazar e Brogni in cui già intravedono in prospettiva Fiesco e Simone.
Grande opera che richiede però per emergere un grande sforzo esecutivo e a Torino si è fatto tutto il possibile al riguardo.
Daniel Oren non è solo uno dei direttori che meglio conosce quest’opera che frequenta dall’edizione londinese del 2006 ma quando è autenticamente motivato ha una sensibilità musicale e una qualità di gesto non comuni. Alle prese con un’opera che ama moltissimo e in un contesto produttivo cui non ha negato elogi questo si traduce in una lettura vibrante e intensa, teatralmente magistrale e capace di rendere i contrasti anche stilistici della partitura. La cruda violenza di molte pagine chiamate a rappresentare il fanatismo cristiano, la mistica essenzialità della scena pasquale – momento sonno nella sua totale parsimonia di mezzi – lo slancio belcantistico e ancora rossiniano e la sontuosità già quasi wagneriana del tessuto orchestrale il tuo unito da un’intensità espressiva profonda e umana.Ottimo in ogni sua componente il cast. E’ al limite dell’incredibile la prova di Gregory Kunde che a quasi settant’anni sigla forse il miglior Éléazar. Kunde giunge a questo titanico personaggio con un’esperienza unica che gli permette di coglierne la natura sospesa tra due mondi. Scritto per Nourrit il ruolo affonda ancora nella tradizione del baritenore rossiniano ma al contempo si proietta verso la vocalità del tenore drammatico del pieno Ottocento. In Kunde allure belcantista e slancio passionale si fondono. La voce domina la tessitura senza cedimento alcune con una pienezza e una sonorità impressionanti. Magari il timbro si è un po’ inaridito ma lo smanto vocale è integro e si è arricchito di un’intensità espressiva unica che passa con la più assoluta naturalezza dalla trascendenza mistica della celebrazione pasquale ad accenti di odio venato di lancinante dolore così prossimi a quelli di Shylock fino alla grande aria forse mai ascoltata in una così perfetta fusione di autorevolezza vocale e in intensità emotiva. Sorprende Mariangela Sicilia come Rachel. Forse il miglior soprano lirico italiano della sua generazione si cimenta in un ruolo Falcon con sensibilità ed intelligenza. Il registro medio-grave mostra una ricchezza di suono che non ci si aspettava e la cantante non cerca mai suono o colori che non gli sono propri ma con intelligenza affronta la scrittura valorizzandola con le proprie doti. La sua è una Rachel musicalissima, dal timbro splendido e omogeneo su tutta la gamma, intensa nei passaggi drammatici e facile in quelli di matrice belcatista, sempre naturale e mai forzata. Sul piano espressivo tratteggia una personalità ardente e passionale, autenticamente coinvolgente.Ioan Hotea regge con sicurezza la non facile parte di Léopold muovendosi con sicurezza su una tessitura molto acuta a dando del personaggio una lettura giustamente chiaroscurata. Eudoxie si risolve invece interamente nel canto e la giovanissima Martina Russomanno – poco più che ventenne – lo affronta con ammirevole sicurezza svettando sicura e precisa nei virtuosismi ad alta quota. Voce di soprano coloratura ma non di soprano leggero anzi robusta e ricca di armonici che unita a un fisico da modella lascia intuire un futuro decisamente interessante.Riccardo Zanellato è un Brogni dalla voce morbida e profonda capace di trasmettere tutta l’umanità del personaggio e non manca di autorità scenica. Di grande spessore l’Albert di Daniele Terenzi e ottime tutte le parti di contorno.
Stefano Poda firma forse il suo miglior spettacolo. Autore come sempre di tutta la parte visiva con un risultato di grande coerenza interna trova qui un titolo particolarmente adatto. L’impostazione è quella che si conosce con la scelta di un contesto autenticamente atemporale e una componente dominante del simbolismo; se questo stride irrimediabilmente con il realismo verdiano o pucciniano qui si adatta assai meglio. La scena astratta dominata dal motto lucreziano “Tamtum religio potuit suadere malorum” presenta pochi elementi ma di grande impatto visivo. Il tema – ancor oggi scomodo – della giudeofobia cattolica non viene evitato con facili scappatoie ma affrontato a viso aperto con soluzioni molto forti sul piano visivo. Il simbolismo liturgico ha un ruolo importante e mette speso in discussione i confini tra i due blocchi. La figura del Cristo che compare muto in scena, ebreo e martire eppure brandito come un’arma dai cristiani, l’autodafé trasformata in un’intensa via crucis in cui la croce e la stella davidica sono solo diverse declinazioni di un’unica sofferenza. Inoltre a differenza di altre volte Poda non perde di vista l’aspetto narrativo e la caratterizzazione individuale dei personaggi che qui è colta con particolare sensibilità. I costumi – al netto della caduta di stile con quello di Eudoxie – sono ricchi nella loro astrazione e i contrasti cromatici hanno una grande importanza nell’impatto visivo dello spettacolo.Foto Andrea Macchia