Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Don Pasquale”

Firenze, Teatro del Maggio Musicale FiorentinoStagione lirica 2024
DON PASQUALE”
Dramma buffo in tre atti, su libretto di Michele Accursi, Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale MARCO FILIPPO ROMANO
Dottor Malatesta MARKUS WERBA
Ernesto YIJIE SHI
Norina SARA BLANCH
Un notaro ORONZO D’URSO
Tre voci soliste VALERIIA MATROSOVA, MASSIMILIANO ESPOSITO, CARLO CIGNI
Orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Jonathan Miller ripresa da Stefania Grazioli
Scene e costumi Isabella Bywater
Luci Jvan Morandi realizzate da Emanuele Agliati
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 19 marzo 2024
Al pubblico che sedeva al “Théâtre-Italien” alla prima del 1843, il “Don Pasquale” si presentava come “roba vecchia”, appartenente a un gusto, quello dell’opera buffa, praticamente superato. Con sorpresa, il sipario si levò su un’ambientazione contemporanea, rivelando la vera forza di questa composizione: trasporre l’intreccio al tempo degli spettatori. Si era davanti a una delle prime produzioni “moderne” di un’opera, che pure viene spesso rappresentata all’insegna della tradizione, come nel caso dell’impianto di Jonathan Miller. Ad anni dal debutto, il mastodontico spaccato della dimora, che si schiude a mo’ di “casa delle bambole”, fa sempre il suo effetto, e se per il pubblico di oggi risulta difficile pensare di trovarsi nei panni dei personaggi, l’immedesimazione con gli inizi del XIX secolo è assicurata dal dettaglio scenico di Isabella Bywater e dai rifiniti costumi, in parte restìi ad abbandonare un certo retrogusto settecentesco. La varietà degli ambienti interni dà alla regia (ripresa da Stefania Grazioli) il pretesto di sfruttare la tromba delle scale come antro insidioso che viola la sfera personale di Don Pasquale, dove germoglia il piano ordito a suo danno. Non a caso, la cavatina di Norina, l’ingresso di Ernesto e numerosi scambi vengono collocati in questo spazio. Non poteva, poi, mancare il vorticoso gioco di porte che si aprono e chiudono, isolando ora quello ora l’altro cantante, che si trova di frequente nelle rappresentazioni della trilogia Mozart-Da Ponte. Da non sottovalutare neppure l’universo parallelo dei piani bassi, dove si muove (origliando) la servitù, mentre il ridondante rimarco dei tratti più macchiettistici dei ruoli, quasi a “ridicolizzare” il genere buffo, è parso quantomeno discutibile. La modernità di quest’opera non sta solo nella scelta dell’ambientazione, ma anche in un assetto musicale che recupera il minimo indispensabile dal genere buffo, guardando a melodie di maggiore espressività, probabilmente evocate dai salotti parigini che l’autore aveva avuto modo di frequentare. Su tali cellule melodiche si attendeva la mano di Daniele Gatti, che fin dalla sinfonia desta qualche riserva, almeno nella restituzione della polka. Il direttore sembra rifarsi ai marcati rallentamenti del maestro Muti (si ascolti la registrazione della Scala del 1994), che accostati alle frenetiche accelerate su galoppi e chiuse, suscitano quasi una sensazione d’irrisolto, come se mancasse il punto di vista di un orecchio più esterno. Questa dicotomia ritmica si riscontra più volte nel corso dell’esecuzione, con tempi lenti specialmente sul canto del tenore e sui sentori più prettamente romantici. La sua conduzione rimane sempre protagonista, a scapito di un cast dal volume poco esuberante e di una più oculata ricerca di sfumature cromatiche, confinate perlopiù a qualche dissolvenza sugli accordi dei recitativi accompagnati e ai sussurrati ritmi di walzer. Per contro, risaltava il dialogo di piano e forte dei partecipativi interventi del coro del Maggio, guidato da Lorenzo Fratini. Nel ruolo del titolo, Marco Filippo Romano si confronta con uno strumento vocale che si depaupera quanto più la parte richiede spinta, rivelando maggiore rotondità emissiva sui gravi. Ciononostante, il suo Don Pasquale amalgama una sentita recitazione con un fraseggio capace di restituire anche il lato più riflessivo del personaggio, senza mai farsi cogliere impreparato sulle caricaturali scansioni del testo e sui rapidissimi sillabati. Un plauso va al suo irriducibile compare, impersonato dal Malatesta di Markus Werba. Ancor più che in altri ruoli, il baritono esibisce una summa del suo comprovato bagaglio da buffo, destreggiandosi con singolare disinvoltura tra i cangiantismi cromatici delle frasi “di facciata”, spiegate a piena voce, e gli scaltri sussurri a mezza voce, a celare la veridicità degli intenti. La gestione del fraseggio è ben appoggiata a una solida tecnica di canto, impavida di fronte a fiati lunghi, contrappunti, studiati legati e fulminei sillabati, mai leziosa e sempre volta alla credibilità del personaggio. Permane qualche attacco dall’emissione meno compatta, entro una voce dal volume contenuto, ma omogenea e dal bel colore. Accanto a lui, destava interesse la Norina di Sara Blanch. Camaleontica, vezzosa al punto giusto e, indubbiamente, “peperina”, la giovane cantante è spigliata in scena e s’identifica nella parte con discreto nitore di fraseggio, fregiato da sciolti abbellimenti e agilità. Come e forse ancor più dei suoi colleghi, il soprano ottempera con grande diligenza ai dettami di regista e direttore. Lo si vede nelle variazioni del rondò, che danno un’ulteriore riprova del suo senso ritmico, lasciando un po’ con l’amaro in bocca chi si aspettasse qualcosa di più pirotecnico. Del resto la Blanch, che nel duetto col tenore aveva trovato qualche frase di centro di più efficace proiezione, non sembra fare sfoggio di un registro acuto di particolare spicco, spesso approssimato col lieve fruscìo espiratorio tipico di una sonorizzazione aspirata. Chiudeva il quartetto l’Ernesto di Yijie Shi, intento a recuperare la componente seria dell’opera. Giovane disperato, poi giovane realizzato, ma sempre giovane innamorato, il tenore fa di un canto profondamente malinconico la sua principale chiave di lettura. La tempra da lirico-leggero emerge maggiormente all’appuntamento segreto con Norina, ma anche qui Shi si conferma timido nel tradurre in voce più incisive intenzioni drammaturgiche, continuando a privilegiare un canto omogeneo e dai generosi legati, ma poco variopinto e mediato da un timbro poco suadente. Corretti, infine, i puntuali rimarchi del notaro di Oronzo D’Urso, applaudito insieme a tutto il cast e alle maestranze del Maggio da una sala entusiasta, ma non al completo.