Pietro Mascagni (1863-1945):”Guglielmo Ratcliff” (1895)

“Il Ratcliff è stato sempre la mia grande passione, l’opera grande, come la chiamavo all’epoca del Conservatorio. Fu in Conservatorio che mi capitò di leggere in un opuscoletto la traduzione del Guglielmo Ratcliff di Heine. Il traduttore era Maffei ed i versi mi sembravano tanto belli che li declamavo di notte, passeggiando su e giù per la camera. Di quei versi me ne innamorai insomma, e non sognavo altro che «l’osteria di Tom» e la passione fantastica di Guglielmo, quella passione che io ho cercato di trasfondere nel «sogno». Il Ratcliff fu dunque veramente la mia prima opera, il mio primo figlio, proprio il figlio dell’amore” (S. De Carlo, Mascagni parla. Appunti per le memorie di un grande musicista, Roma, De Carlo Editore, pp. 89).
Come ricordato dallo stesso Mascagni in una delle conversazioni con l’editore Salvatore De Carlo, raccolte dall’editore stesso nel volume Mascagni parla, il soggetto del Guglielmo Ratcliff di Heine fu il suo primo vero grande “amore” operistico; frutto di un’infatuazione giovanile, che risale agli anni in cui il compositore era studente al Conservatorio di Milano, il Ratcliff  non fu composto in tempi brevissimi e, nel catalogo delle opere di Mascagni, occupa, in ordine di composizione, il quarto posto dopo Cavalleria, Amico Fritz e I Rantzau.  La composizione dell’opera, per la quale aveva scelto come libretto la traduzione di Andrea Maffei, non fu facile né tanto meno breve, configurandosi quasi come una vera e propria ossessione e occupando i pensieri del compositore anche in un momento estremamente doloroso come la morte del figlioletto Domenico ad appena quattro mesi. In una lettera del 5 ottobre 1887 indirizzata a Vichi Gianfranceschi si legge infatti:“Il mio caro figlio mi spirò in braccio senza mandare un lamento. […] Questo bambino quando nacque e quando visse fu la più grande consolazione che avessi mai provato; oggi che è morto è il dolore più forte che ho avuto in vita mia. […] Povero figliolo, aveva quattro mesi e dieci giorni […] se la sua vita mi fosse costata il sacrificio dell’arte mia e del mio “Guglielmo“, serenamente avrei stracciato e disperso quei fogli sporchi d’inchiostro […]. Mi trovo accasciato, avvilito, impotente a lottare”.
Nonostante la passione per questo soggetto, Mascagni fu costretto ad interrompere la composizione del Ratcliff perché assorbito dalle sue tre prime opere, Cavalleria Rusticana, Amico Fritz e I Rantzau. Soltanto tra il 1893 e il 1894 nella pace e nel silenzio della sua residenza a Cerignola, che aveva dato adito da parte delle malelingue a qualche pettegolezzo sull’esaurimento della vena del compositore, Mascagni poté finalmente attendere alla composizione del Ratcliff, completandone la stesura nel mese di gennaio del 1894. A poco più di un anno esatto, il 16 febbraio 1895, l’opera visse la sua trionfale première alla Scala di Milano con un cast di eccezione diretto e scelto con meticolosa cura dallo stesso Mascagni e costituito da: Adelina Stehle-Garbin (Maria), Arminda Parsi Pettinella (Willie) e Della Rogers/Renée Vidal (Margherita), Giovanni Battista De Negri (Guglielmo Ratcliff), Aristide Masiero (Dick), Giovanni Francesco Fabbri (Taddie), Gaetano Matteo Mazzanti (Lesley), Giuseppe Pacini (conte Douglas) e G. Calvi (Bell), Giuseppe De Grazia (MacGregor), Giovanni Scarneo (Tom), Raffaele Terzi (Robin) e Giuseppe Rosci (John).
L’opera fu un trionfo, come lo stesso compositore ricordò con un certo orgoglio nelle conversazioni intrattenute con De Carlo: “Vi parlo, per esempio, del successo del “Ratcliff”, quarantotto anni fa, nel ’95. Non si può avere un’idea dell’importanza che aveva in quei tempi una “prima” teatrale, soprattutto una prima di opera! Pensi che per la prima del “Ratcliff“, alla Scala, nel febbraio del ’95, si dovette istituire un apposito ufficio telegrafico dal quale partirono, in quelle tre ore, ben 480 dispacci, specialmente per Parigi, Londra, Berlino, Vienna, Monaco, Madrid, Lisbona e perfino per l’America. Erano i telegrammi dei corrispondenti di tutto il mondo i quali comunicavano ai loro giornali il grande successo ottenuto dal “Ratcliff.” Le dirò poi della storia della prima donna che si ammalò all’ultimo momento, e può ben immaginare che brutti momenti passai. Ebbene, con tutto questo, il successo fu grandioso, una vera consolazione per me che da mesi non vivevo che per il mio “Ratcliff” come, a distanza di tanti anni, posso dire non ho vissuto per nessuna opera. Ero tanto più preoccupato in quanto l’attesa era vivissima a Milano, anche perché era la prima volta che al teatro milanese si dava una prima rappresentazione assoluta di una mia opera nuova. Poi, intorno al mio nome, si erano ormai accese tante polemiche che mi si aspettava al varco e tutti volevano vedere come me la sarei cavata in questa nuova battaglia che io combattevo per l’arte italiana. I dintorni del teatro erano assiepati di folla. In teatro c’erano Puccini e Gomez. Detti sedici repliche, e Sonzogno ne fu contentissimo perché, proprio quell’anno, aveva assunto per proprio conto la gestione della Scala”. (Ivi, pp. 90-91).
Per i diritti dell’opera Ricordi e Sonzogno in un certo qual modo duellarono, come raccontò lo stesso compositore sempre a De Carlo:  “Andai dunque, quella mattina, a fare colazione ai Colli con Ricordi e gli amici. Dopo si tornò a Firenze per firmare il contratto. Cedetti così il Ratcliff a Ricordi. Mentre si stava ancora discutendo, ecco che arriva mio fratello tutto trafelato. «Pietro! Pietro!», urla. E mi butta le braccia al collo piangendo. «Dunque non sei andato?». «Sta’ zitto; ringrazia Dio; non sono andato su quel disgraziato tram proprio per una combinazione: ti racconterò. Questo è il signor Ricordi, l’editore, questi sono i miei amici». Mio fratello continuava a balbettare: «Sei salvo! Sei salvo, se Dio vuole!». […] Intanto Sonzogno, che era a Torino, mi spedisce un telegramma a Firenze per chiamarmi da lui. «Vi aspetto senza dubbio domani a Torino, ecc…». Io parto. Alla stazione lo trovo ad aspettarmi con un muso lungo così. Mi porta all’Hotel d’Europa e mi dice: «Questo è il vostro appartamento; ma ora venite di qua nel mio». Entro nel suo appartamento senza parlare. Dico: «È successo qualche fatto grave?». Lui cammina su e giù. Ad un certo punto si ferma. «Chiamate gli editori pescicani… E voi cosa siete?». «Oh Dio, spero di essere una balena per mangiarvi tutti in un boccone, ma non mi riesce… si capisce: voi siete più forti di me». «E voi siete l’uomo più ingrato che esista. Bandisco un concorso; vi faccio vincere…». «Ah, no! Io ho vinto il concorso con l’opera mia. In ogni caso possono essere stati i Commissari che mi hanno fatto vincere perché sono stati contenti di me, ma l’editore non c’entra niente!». «E voi  date un’opera a Ricordi?». «Mi perdoni, signor Sonzogno: io ho dato l’opera a Ricordi il 17 maggio. Al 31 maggio il contratto con voi di Cavalleria ancora non era stato fatto. Quindi avevo già venduto a Ricordi il mio Ratcliff prima di Cavalleria. Avrei potuto vendergli anche Cavalleria… Ecco dove sta la mia gratitudine: ho resistito lì. No, la Cavalleria, ho detto, appartiene a Sonzogno. Volete il Ratcliff? Ecco il Ratcliff. E gliel’ho ceduto prima di firmare il contratto di Cavalleria». «Ma come?!». «È proprio così. Io non faccio mai porcherie. Nella vita non ne ho mai fatte e non ne farò mai».  Poi si va a Milano e ad un pranzo in casa sua, presenti i suoi amici, i fedeli turibolari, Sonzogno fa: «Sapete, Mascagni, appena ha scritto la Cavalleria, ha dato il Ratcliff a Ricordi». Io mi affretto a rettificare: «Non ascoltate quello che dice il signor Sonzogno; io ho ceduto il Ratcliff a Ricordi prima che Sonzogno mi avesse chiesto Cavalleria. La Cavalleriaera di mia proprietà, come ha stabilito Sonzogno nell’avviso del concorso, e mi sembra di aver dimostrato abbastanza gratitudine se non mi sono valso del mio diritto, stipulando altrove un buon contratto.
E se lo volete sapere, miei cari amici, c’è qualcosa di più: soltanto al termine di tutte le recite Sonzogno mi chiamò e mi disse: «Ecco il contratto». E io risposi: «Signor Sonzogno, non lo guardo neppure; me lo porto così a casa; poi lo firmo e glielo riconsegno». Ma dopo averlo letto, glielo riportai subito e lo stracciai in due pezzi. Dissi: «Questi contratti non li firma neppure uno che muore di fame a Cerignola. È una vergogna presentarli! Come?! Lei crede di poter approfittare di un povero maestro appena nato all’arte, per offrirmi il dieci per cento sopra i guadagni netti dell’opera per quindici anni! Ma lei scherza! Lei crede che io non conosca le leggi! La legge stabilisce una durata di ottanta anni, altro che di quindici anni!». Allora successe l’ira di Dio. Mise di mezzo gente e alla fine mi presentò un altro contratto un po’ migliorato, ma sempre cattivo che firmai a malincuore. Ed ora mi rimprovera anche per essermi dimostrato troppo onesto!… È il colmo!». «E se gli l’avessi chiesto io, il Ratcliff?». «Prontissimo». «E se glielo chiedessi oggi?» . «Pronto. Domani le porto il contratto di Ricordi, perché quello non è mica un uomo come Sonzogno: è un galantuomo, un uomo di cuore… sono sicuro che mi restituirà il contratto». «Queste sono le solite chiacchiere…». «Ve bene, mettetemi alla prova, signori. Qui sono tutti testimoni». L’indomani mattina vado da Ricordi, con la mia solita franchezza: «Signor Giulio, vengo qui da lei per una cosa fastidiosa. Sonzogno vuole il Ratcliff. Bisognerebbe che lei fosse tanto buono da restituirmi il contratto». «Non ho nessuna difficoltà. Io non ho chiesto il Ratcliff. Ho chiesto un’opera di Mascagni. Mascagni mi dà un’altra opera e va tutto bene». (Ivi, pp. 71-73).

L’opera
Atto primo

La scelta di Mascagni di utilizzare come libretto la traduzione della tragedia di Heine realizzata da Maffei appare alquanto coraggiosa, dal momento che il testo, concepito per la recitazione e non per la musica, non si presta a strutture riconducibili ai tradizionali pezzi chiusi. Inoltre la lunghezza di alcuni monologhi, più da teatro di prosa che musicale, può rendere pesanti alcune scene anche se la quasi totale assenza di pezzi chiusi sembra superata dalla volontà  di Mascagni di concepire ogni atto come un unico poema sinfonico all’interno del quale le voci si aggiungono all’orchestra che dipinge l’atmosfera tetra della vicenda ambientata nel castello del feudatario Mac Gregor nella Scozia del 1820. Il primo atto si apre con un’introduzione orchestrale e al tempo stesso vocale per l’intervento della folle Margheritache intona ossessivamente una vecchia cantilena dall’inquietante contenuto basato sul connubio amore-morte. Il tono iniziale sembra epico nel tema (Es. 1) dal ritmo puntato, affidato a dei raggelanti legni nella parte acuta, ma è già tragico sia nella modulante struttura armonica sia nel disegno cromatico discendente che s’insinua al di sotto di esso e che ritroveremo rielaborato nel momento in cui il vecchio Mac Gregor narra la tragica morte dei pretendenti della figlia nel corso dell’atto. In questa introduzione si inserisce l’ossessiva cantilena di Margherita (Uccisa ho la mia cara!…) che, come la siciliana della Cavalleria, sembrerebbe incastonata all’interno di questo preludio, ma che in realtà racchiude l’intera pagina introduttiva essendo ripresa nella coda conclusiva dopo un magniloquente tema affidato agli archi nel quale si possono riconoscere, nella strumentazione, degli echi del preludio della Cavalleria. Nella prima scena una misteriosa aura drammatica, per niente consona al clima festoso di un matrimonio appena celebrato, sembra aleggiare su Mac Gregor e i due novelli sposi Maria e Douglas. Di carattere solenne è l’intervento di Mac Gregor, accompagnato da una scrittura accordale altrettanto solenne, mentre gli archi, con un tema puro e brevissimo di carattere lirico, sembrano prefigurare un avvenire sereno per i due sposi. Mentre Mac Gregor e Douglas si dichiarano reciprocamente onorati dei nuovi legami parentali appena costituiti, Margherita, in una forma spettrale, riprende la vecchia triste ballata d’amore e morte. Il clima sembra farsi più leggero, quando Douglas, interrogato sulla vita che si conduce a Londra, racconta del caos che vige nella capitale inglese assimilata ad una novella torre di Babele. L’ironia di Mascagni si produce nell’accompagnamento agitato, costituito da un unico disegno ritmico (semimina seguita da due crome), che sembra riprodurre la vita trafelata della capitale inglese. Dopo il commento laconico, quanto eloquente, di Mac Gregor che afferma Sia lode al mio sajo scozzese e al mio berretto, Maria chiede allo sposo notizie del viaggio e ha un mancamento quando apprende dall’agitato racconto dell’uomo di essere sfuggito a dei briganti. L’ultima parte dell’atto è occupata dalla narrazione, un po’ prolissa, del vero e proprio antefatto, affidata a Mac Gregor (Già corre il sesto anno), il quale intona un lungo e ripetitivo monologo sia nel testo che nella musica, in cui appare per la prima volta il nome del protagonista eponimo. Secondo quanto narrato da Mec Gregor, sei anni prima, un giovane di Edimburgo di nome Guglielmo Ratcliff era giunto nel suo castello dove si era innamorato della bella Maria che, però, non aveva corrisposto al suo amore. Due anni dopo Filippo Macdonaldo, promesso sposo della figlia, viene ucciso proprio poco prima delle nozze e la sua salma è ritrovata nei pressi del Sasso Nero. Qui la musica si ravviva e quel disegno cromatico latente nel tema dell’introduzione è declamato con drammaticità a piena orchestra (Es. 2).La storia e la musica, con un lirismo un po’ contratto, si ripete quando Mac Gregor rievoca la tragica fine  Lord Duncano, altro promesso sposo di Maria, ucciso nello stesso luogo. Sulle due morti aleggia l’ombra sinistra di Guglielmo Ratcliff che, in entrambi i casi, avrebbe portato l’anello nuziale dei due sposi a Maria. L’atto si conclude con l’arrivo dell’amico di Ratcliff, Lesley, che reca a Douglas un messaggio di sfida a duello da parte di Ratcliff. L’uomo accetta, mentre l’orchestra declama il tema cromatico discendente già udito in precedenza.
Atto secondo
Nel secondo atto la scena si apre sulla Taverna dei ladri di Tom dove l’anziano oste insegna al figlio il Pater nostro in una scrittura accordale quasi organistica per la scelta dei timbri e di carattere ecclesiastico per l’insistenza sui ritardi di terza. Il bambino ha difficoltà ad imparare l’ultimo versetto nonostante le insistenze del padre e solo, alla fine, allontanandosi, riesce a ripeterlo. Mentre Tom è presentato come un bonario oste preoccupato dell’educazione e del futuro del figlio con scrittura ironicamente pesante decorata da altrettanto ironici trilli e da marionettistiche acciaccature al basso (Guardate un tratto quel capo di volpe),  Guglielmo Ratcliff si distingue, sin da questa sua prima apparizione per il suo carattere irruento, evidente nel declamato vibrante con il quale lancia un’invettiva contro la società del suo tempo. All’arrivo di Lesley, il quale annuncia che Douglas ha accettato la sfida, Tom va via, mentre Ratcliff spiega le ragioni del suo comportamento, raccontando dello strano e misterioso sogno di cui sono protagonisti due amanti, con uno dei quali Ratcliff sembra identificarsi; questo passo è caratterizzato inizialmente da una scrittura fluida (Es. 3) che diventa sempre più lirica quando l’uomo parla del suo incontro con Maria. È questo un lungo monologo, nel quale Mascagni non ricorre ad una struttura musicale da pezzo chiuso, ma cerca una suprema sintesi tra poesia e musica che disegna i sentimenti dell’uomo. I brevi momenti di idillio si risolvono, però, in tragedia quando l’uomo, nella parte conclusiva, racconta del rifiuto della fanciulla di fronte alla sua profferta amorosa e aggiunge che, spinto da un giuramento arcano, ha  deciso di uccidere tutti gli uomini che si sarebbero fidanzati con Maria. Dopo una nuovo eccesso d’ira di Ratcliff la tensione si stempera in una dolce melodia dell’oboe, mentre il protagonista si allontana per recarsi all’appuntamento presso il Negro Sasso, lasciando nell’osteria gli altri briganti che commentano il suo strano comportamento. L’atto si conclude con la ripresa della melodia dell’oboe in una scrittura idillica che non sembra proprio adatta al carattere drammatico e tenebroso dell’intero atto.
Atto terzo
Una scrittura tempestosa con sibili di vento resi da accordi legati cromaticamente, che ricordano quelli cantati dal coro a bocca chiusa nel Rigoletto di Verdi, apre il terzo atto che si svolge nei pressi del sinistro luogo del Negro Sasso; qui Guglielmo Ratcliff appare sempre più tormentato con un disegno ripetuto ossessivamente in orchestra che sembra scarnificare il suo animo. Uno squarcio lirico, in questa scrittura così tenebrosa, sembra aprirsi nella breve rievocazione della donna amata, Oh, come onesta, ma al pensiero di Douglas risorgono nella mente dell’uomo gli spettri che sembravo essere stati fugati in quel momento lirico e che ora sembrano materializzarsi in inquietanti cromatismi. Appena giunto nel luogo della sfida, Douglas riconosce nella voce di Ratcliff quella dell’uomo che lo aveva salvato dai briganti e rinnova la sua riconoscenza stringendo un patto di amicizia che si rompe subito dopo quando i due uomini scoprono di essere rivali. Il duello, che ne segue, vede vittorioso Douglas, che, pur potendo affondare la spada contro il nemico disarmato e a terra, decide di risparmiarlo ripagando così il debito di riconoscenza da lui contratto quando Ratcliff gli aveva salvato la vita. A questo punto s’inserisce una delle gemme dell’opera, l’Intermezzo orchestrale Il sogno, brano sinfonico formalmente tripartito A-B-A1,costruito su un tema di intenso lirismo (Es. 4) e all’inizio dell’atto. Un nuovo squarcio lirico si apre nel breve passo, Ombra esecrata, al termine del quale Ratcliff matura la decisione di rapire la donna amata, mentre le note del Sogno, perorate dall’orchestra, concludono l’atto stabilendo una sintesi fra sogno e realtà.
Atto quarto
Il quarto e ultimo atto è aperto da un’altra pagina sinfonica, sempre dalla struttura tripartita con richiami al tema del Sogno nella parte centrale, e con l’intervento di voci femminili che nell’edizione in ascolto sono state eliminate. All’inizio dell’atto ritorna il tema in 5/4 della parte iniziale del primo atto, sul quale Margherita e Maria parlano di Douglas in un clima sereno interrotto nel momento in cui viene pronunciato il nome di Ratcliff, verso il quale Maria non sembra nutrire odio. La donna evoca con una certa tenerezza l’uomo che, in questo momento, è causa di tanto dolore nella breve romanza D’indole dolce e mansueta, ma anche in questa apparente oasi di lirismo e di serenità dalla semplice macrostruttura  bipartita (A-A1) s’insinua la misteriosa ed inquietante  metamorfosi dell’uomo in uno spettro. Le parole di Maria inducono Margherita a raccontare, sulle note del preludio del primo atto, la triste storia di Edvardo ed Elisa, i fantasmi che occupano e turbano il sonno di Guglielmo e Maria, di cui sono rispettivamente il padre e la madre. Secondo quanto narrato da Margherita, Elisa, pur amando Edvardo, non solo non lo sposò perché colta da raccapriccio dopo aver visto la spada dell’uomo rossa di sangue per un recente delitto, ma decise di unirsi in matrimonio con Mac Gregor. Edvardo, a sua volta, sposò una donna di nome Ginevra, figlia del Lord Campel, dalla cui unione nacque Guglielmo, ma non dimenticò la donna amata e ogni notte si recava nei pressi del castello nella speranza di vederla. Elisa, informata da Margherita, una notte si affacciò al balcone per poter vedere l’uomo amato, suscitando così la gelosia del marito che uccise Edvardo causando, così, anche la morte della moglie che non resse al dolore. In questo drammatico racconto la musica riveste un ruolo estremamente importante, in quanto va oltre il testo dando ad esso una struttura unitaria. Le note tetre del preludio del primo atto, qui riprese da Mascagni, esprimono finalmente il mistero che esse racchiudevano gelosamente all’inizio dell’opera creando un ponte ideale tra l’inizio e questo passo del dramma. All’arrivo di Guglielmo, marcato da un accordo di mi bemolle minore in fortissimo, le due storie sembrano sovrapporsi con Margherita che, ingannata dalla somiglianza dell’uomo con il padre, esclama: O Santa Vergine, il morto Edvardo! Alla sua vista Maria freme pensando che Guglielmo le stesse portando l’anello nuziale di Douglas, ma, dopo aver visto il suo capo ferito, quasi in delirio, s’identifica con sua madre e vede nell’uomo che le sta di fronte Edvardo. Finalmente i due amanti possono abbandonarsi, in un languido duetto, alla passione che viene suggellata da un bacio. Sembra che il loro amore possa avere una forma di coronamento nonostante la ritrosia di Maria che rifiuta inizialmente di fuggire con Guglielmo, quando un accenno di Margherita al ritornello dell’inquietante cantilena da lei ossessivamente ripetuta fa precipitare il dramma. Guglielmo, in delirio, uccide Maria e poi accusa dell’omicidio lo spettro che tormenta la sua mente. Guglielmo uccide Mac Gregor appena giunto e poi se stesso pronunciando per l’ultima volta il nome di Maria. Dopo una nuova ripresa della cantilena da parte di Margherita l’opera si conclude con un magniloquente finale. In allegato il libretto dell’opera